Come accade per molti artisti nel corso della loro carriera, anche Dario Argento – l’iconica figura autoriale del cinema thriller italiano – sta attraversando un forte crisi creativa, una caduta che dura ormai da parecchio tempo. Dopo aver contribuito in modo significativo a definire il genere e diffonderlo oltre i confini nazionali, negli ultimi anni i suoi film hanno iniziato a far minor presa nel pubblico.
Profondo Rosso, il capolavoro di Dario Argento
Il terrore e la tensione restano elementi vivi e risonanti solo in alcuni suoi lavori, su tutti Profondo Rosso (1975). Qui Dario Argento, attraverso la classica storia dell’indagine su efferati omicidi seriali condotta da una giornalista e un musicista, decide di raccontare le più intrinseche e ancestrali paure del genere umano. Il regista romano mette in scena tutti quegli incubi irrazionali, abissi dell’inconscio logicamente improbabili, ma possibili, capaci di mettere a nudo l’intimità di ogni spettatore.
Il film ha avuto successo perché la storia, ricca di dettagli e creatività, risulta unica e universale, compresa da tutti ma con sensazioni diverse e personali. Grazie al suo stile esclusivo e creativo, Argento si distingue da altri autori e registi sostituendo ad alcune regole del genere crime/horror un vero e proprio gioco di confusione e illusioni, originando nuovi dilemmi e incertezze.
Il ventennio d’oro
Altre pellicole come Suspiria (1977), Inferno (1980) e Phenomena (1985) conducono a una notevole immedesimazione e coinvolgimento emotivo, tanto da provocare paura e terrore allo stato puro.
La brillante carriera di Dario Argento resta purtroppo confinata in un solo ventennio (anni ’70 e ’80), forieri di eccezionali esempi di applicazione del pathos e dell’azione omicida, del disordine psicologico e del trauma: basti pensare a L’uccello dalle piume di cristallo, Il gatto a nove code e Quattro mosche di velluto grigio.
La caduta dagli anni ’90 a oggi
Dai successivi anni ‘90, il regista inizierà a perdere ispirazione, cosa che non lo frenerà nel continuare a dirigere, ahinoi con scarsi risultati. Dopo l’ancora decente Trauma (1993), si susseguono operacce sterili, afone e sbrigative, prove incolore e vuote.
Esempi lampanti sono La sindrome di Stendhal (1996) con la pessima interpretazione di Asia Argento, Il cartaio (2004) e La terza Madre (datato 2007, il più brutto e asettico della trilogia delle Madri), l’orrendo Giallo (2009) e il ridicolo Dracula (2012).
Occhiali Neri e l’anacronismo patologico di un ex maestro
Nel 2022, Argento prova a risollevarsi artisticamente, dando invece vita a una pellicola che segna inesorabilmente la sua caduta definitiva, Occhiali Neri. Il film affronta la tematica della prostituzione e della violenza sulle donne, con la protagonista che riesce a sfuggire a un serial killer, ma nel mentre ha un incidente e perde la vista.
Stando ai pareri della critica e del pubblico, il thriller appare oramai démodé rispetto agli omologhi contemporanei. Le scelte registiche, di scrittura, estetiche e sonore risultano figlie dell’epoca d’oro della carriera di Argento, vecchie, stinte e dal gusto vintage. Forse uno spiraglio di modernità emerge nella volontà di trattare il mondo della disabilità con pragmatismo e sensibilità. L’aspetto resta tuttavia troppo marginale, concedendo maggior spazio al racconto visivo del corpo femminile e la sua uccisione brutale, che origina una violenza non apprezzata e fine a se stessa.
Da questo suo ultimo lavoro viene a galla l’anacronismo patologico di Argento, l’effettiva incapacità di adattarsi ai tempi e innovarsi nel contesto di un genere profondamente cambiato nel corso degli anni, con nuovi autori e trend che hanno influenzato il gusto del pubblico mutandone l’orizzonte di attesa.
L’Hitchcock all’italiana – come veniva definito – ha perso il proprio smalto diventando l’ormai ex maestro del brivido. E purtroppo non fa più paura.