È il 1999, l’anno di Haunting – Presenze, suggestivo horror diretto da Jan de Bont. Rechiamoci tutti nel Massachusetts, a Hill House, una vecchia magione che si erge maestosa e spettrale, e che non accetta facilmente ospiti. Una casa che si presta benissimo alla missione del Dr. Marrow, un intenso studio sulla paura che vede tra i partecipanti al test persone facilmente suggestionabili.
Ma saranno davvero loro a lasciarsi condizionare oppure sarà questa dimora barocca a metterli alla prova?
Dentro Hill House
Come tutte le vecchie magioni, all’entrata si trova un imponente cancello serrata da pesanti catene. La frase del custode non è rassicurante: egli si riferisce alla casa quasi come a un essere autonomo, informando la prima arrivata Eleanor (detta Nell) che quell’ingresso segna un varco, una separazione tra il mondo che Hill House rappresenta e la realtà esterna al perimetro. Ma perché questa specificazione? Perché una casa avrebbe bisogno di tenere fuori il resto del mondo e allo stesso tempo tener dentro i suoi segreti?
Il colossale portone si fregia di enormi lastre che riportano in bassorilievo scene del Purgatorio dantesco, luogo di mezzo, calderone di anime destinate a restare intrappolate, per sempre. Non importa la maestosità del salone, le sculture – quasi tutte raffiguranti bambini – e i quadri dei proprietari: il suo sfarzo non deve ingannare, la casa respira, e non è mai un buon segno.
La storia di Hugh Crain
Abbiamo infatti un richiamo ai sensi prettamente umani anche nella storia che il Dr. Marrow racconta per iniziare a suggestionare i tre partecipanti al test. Hill House era l’abitazione di Hugh Crain, vecchio industriale tessile che costruì la casa per sé, per sua moglie e la futura prole. Ecco tuttavia che qualcosa non quadra. Il dottore si esprime molto chiaramente: “Voleva fosse popolata dalle grida dei bambini.”
Grida. Il destino volle che queste grida non arrivassero mai, poiché la consorte di Crain non riuscì ad avere figli e si suicidò per la disperazione.
Nell nella notte sente qualcosa, la casa parla davvero, la casa ha una sua voce. E non c’è da stupirsi se quelle che sente sono proprio grida di bambini. Non finisce qui. La casa ti può guardare, le sculture hanno gli occhi e direzionano lo sguardo, ecco perché ritraggono così tanti volti.
La casa si muove. I labirintici corridoi che la protagonista percorre in preda alla paura sembrano moltiplicarsi in un intreccio infinito e incerto che ha come unico scopo farti sentire solo e piccolo. La casa ti vuole vulnerabile.
A livello scenografico viene in aiuto la teoria dell’accumulo. Ogni scena è satura di elementi architettonici, uno stile barocco portato all’eccesso, quasi come se Crain avesse sublimato la mancanza di presenze umane con fredde decorazioni che aggrediscono e generano claustrofobia. Questo almeno è quello che Crain sembra volere, ma non è la sua l’unica anima intrappolata in quella prigione dorata.
Non è lui che si fa avanti con Nell. C’è del dualismo. Crain intrappola, mentre invece i bambini cercano espiazione. Ma quali sono dunque questi bambini? Quanto dolore possono assorbire le mura domestiche?
Un teatro di sofferenza e sfruttamento
Hill House, la vera Hill House per lo meno, è stata teatro di sofferenza e sfruttamento. Basta guardare il ritratto di Crain per notare la somiglianza con una bestia animalesca che ha eretto la propria dimora per obbligare piccole anime a colmare la disperazione e l’avida ricerca di compagnia.
Nell, guidata dal sentimento positivo che sembra emanare quella summa architettonica, trova tutta la documentazione riguardo le morti di poveri bambini costretti a lavorare per Crain e uccisi in giovanissima età. È quasi come se la dimora cercasse a sua volta un varco, un’anima pura alla quale raccontare la sua storia.
In questo senso si mostra solo a Nell, la guida, le permette di arrivare in nuove stanze. Gli altri protagonisti restano a margine. Solo Nell può arrivare e vedere posti e cose che Crain, o quello che resta del suo spirito spregevole, ha incatenato a sé per sempre.
Sarà solo lei a poter salire la scalinata nella serra, e quando il dottore cercherà di trarla in salvo, la casa si renderà ancora una volta protagonista fisica non permettendoglielo.
Nella serra stessa inizierà la sequela di sventure. Non c’è più un arredamento statico bensì una minaccia mobile costante, il respiro affannoso di chi neanche nella morte concede liberazione. Adesso è Crain ad avere il comando, la casa rappresenta una sua emanazione. Vibra e si muove seguendo le ire di un’anima dannata in un’atmosfera da brividi.
La terribile forza attrattiva di Hill House
È indubbio che qualcosa si stia ribellando. Si scopre che Nell non è stata contattata dal dottore per partecipare al test. Ma allora da chi? Da quello che resta della casa, ecco da chi! Crain ebbe una seconda moglie, una lontana parente della povera Nell. Ora che lei è completamente sola al mondo, la magione estende la sua forza oltre il cancello, oltre il varco, e chiama a sé l’espiazione.
Ciò che inquieta di Hill House, da un’ottica puramente psicologica, è la capacità di attrarre una nuova anima a sé, non uccidendola. Perché c’è già Crain che pensa a questo. Rende strumenti di morte tutto ciò che circonda i protagonisti. L’anima che Nell però sceglie di sacrificare è del tutto lontana dalla morte fisica. La casa le mostra la stanza della sua antenata ed è lì che finalmente ha lo snodo finale che cercava.
Sarà Nell a sancire definitivamente la separazione tra Inferno e Paradiso. La casa purgatorio esploderà simbolicamente nella figura dello stesso Crain. Ed è la frase finale del custode, recatosi lì il mattino seguente, a consegnare la corretta visione a posteriori di Hill House. Chiederà al dottore e all’unica altra cavia sopravvissuta se ha finalmente trovato ciò che cercava.
Lo sguardo immobile e spento di Marrow fornisce già la risposta implicita, ma quando la macchina da presa sale e mostra la casa, illuminata adesso da un cielo azzurro, capiamo che forse chi davvero cercava qualcosa in tutta questa storia era sempre e solo quella dimora infernale.