Durante la guerra di secessione, tre uomini anarchici privi di scrupoli e di qualsiasi ideale – Joe il buono (Clint Eastwood), Tuco il brutto (Eli Wallach) e Sentenza il cattivo (Lee Van Cleef) – hanno lo stesso scopo: trovare un tesoro nascosto in un cimitero.
Formano un trio strambo e sconclusionato i cui elementi non si fidano l’uno dell’altro ma si trovano costretti a collaborare e inseguirsi. E’ la storia de Il buono, il brutto, il cattivo, mitico western di Sergio Leone che segue le vicissitudini di questi tre uomini tra situazioni imprevedibili e personaggi stravaganti.
Soldi e crudeltà
Anche se l’unico motore di tutto il film e dei suoi protagonisti sono i soldi, qui il regista italiano sembra voler rappresentare anche la crudeltà della guerra e lo fa in modo dettagliato, senza schierarsi per i buoni o per i cattivi. Il buono dirà “Non ho mai visto tanta gente morire tanto male”.
Si tratta di una pellicola arricchita in maniera preponderante dallo “sfondo”. I personaggi sono influenzati dagli orrori a cui assistono e sono più caratterizzati di quanto lo siano i precedenti: non sono personalità nette, bianche o nere, bensì estremamente sfaccettate. Il buono non è solo buono, ma sa essere spietato e lo stesso vale per il brutto e per il cattivo.
Sarcasmo e ironia in un western nato per caso
Ciò che colpisce è che questo terzo film, capitolo conclusivo della cosiddetta trilogia del dollaro, è nato per caso. I distributori americani, infatti, visto in Europa il successo di Per qualche dollaro in più, si impegnarono non solo a comprare i primi due film, ma anche ad acquistarne un terzo a scatola chiusa.
L’offerta della United Artists, la major del trio Chaplin–Pickford–Fairbanks, fu così generosa che Sergio Leone ci pensò su e decise di mettersi al lavoro. Ne uscì questo capolavoro che aveva rischiato di non vedere la luce. Un western attraversato da un sarcasmo e un’ironia che hanno reso ogni scena indimenticabile, e anche imitata, senza mai avvicinarsi però alla qualità dell’originale.
La corsa del brutto fra le lapidi
La scena finale, in particolare, può essere una summa dell’estetica di questa pellicola. Nella ricerca affannosa della tomba, il cattivo carpirà il nome sulla lapide, ma sarà il brutto ad arrivarci per primo. Il brutto, interpretato da Eli Wallach, è il personaggio più amato, e forse il più positivo, quello per cui si tifa.
In questa celeberrima sequenza, il brutto si rialza a ridosso del cimitero e la macchina da presa di Leone riprende la sua vastità, sulle note inizialmente lente della magnifica colonna sonora di Ennio Morricone.
Il brutto s’inoltra, adagio, cammina disorientato, la macchina da presa non lo segue ma si alza lentamente, un cane abbaia mentre attraversa l’inquadratura sulla destra, e la macchina da presa si ferma lì, sospesa. Il brutto inizia a correre lungo una fila di lapidi fino a diventare un puntino, mentre la musica lo accompagna in un crescendo emozionante.
Poi la cinepresa lo affianca, si avvicina, mentre il brutto continua a correre, rallenta e si ferma nello spiazzo al centro del cimitero. Primo piano del brutto mentre aguzza la vista e riprende a correre. La macchina da presa si ferma nello spiazzo e lo lascia correre, poi si allontana, inquadrando l’intero cimitero e il brutto, solo un puntino che corre in tondo nello spazio.
Sergio Leone torna da lui, i violini si alzano e una voce angelica lo accompagna, la lapide si avvicina. La macchina da presa gira su se stessa, mostra la stanchezza, la spasmodica ricerca, la frenesia del brutto, prima con lui, poi senza di lui, e va sempre più veloce, le lapidi si confondono, gira e gira, la musica è arrivata al culmine, poi uno sprazzo di cielo e il primo piano di Eli Wallach che si è fermato di colpo, insieme alla musica: ha trovato la lapide.
Stacco rapido sulla lapide e sul viso soddisfatto del brutto.