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J.F. Sebastian e la sua solitudine nei Bradbury Apartments

Si dice, in certe branche della filosofia, che il mondo sia riferibile a un macrocosmo, e l’uomo sia invece il corrispettivo di un microcosmo e che essi convivano costantemente poiché riflessi l’uno nell’altro. Per analogia qualitativa, infatti, il macrocosmo è un insieme di più parti, mentre il microcosmo contiene il tutto di esse, in minima parte.

Se siamo e ci manifestiamo nelle cose, nei luoghi, e le cose e i luoghi si manifestano in noi, non c’è analogia qualitativa più pertinente e lampante di J.F. Sebastian e l’ambiente in cui vive, e viceversa: si tratta infatti dei Bradbury Apartments, una struttura che Ridley Scott ha voluto utilizzare nel suo capolavoro scifi Blade Runner come elemento architettonico della (ormai non più) futuristica Los Angeles del 2019.

Costruito a fine Ottocento, il complesso appare come un involucro imponente ma trascurato e pericolante, immerso nella solitudine più tetra, senza inquilini né dirimpettai. Il palazzo dove abita J.F. è quindi luogo desolato e decadente dell’anima, collegato da infiniti corridoi e scale che restituiscono – nella loro fredda compiutezza – l’unica, perpetua eco di una pioggia incessante.

E se J.F. Sebastian potesse ascoltarsi dentro, probabilmente ritroverebbe quello stesso silenzio deprimente che viene tuttavia coperto da suoni metallici, meccanici e cadenzati, di creature fittizie dalle fattezze infantili, i suoi “amici”: di essi tanto abbisogna per placare un’assenza esistenziale al limite del nauseante.

J.F. Sebastian e i suoi “amici”

J.F. Sebastian è un’anima antica condannata alla prigionia di un corpo che avvizzisce prematuramente, all’interno di un appartamento, un edificio dove sedimentano le polveri inesorabili del tempo, bloccato in una routine senza via d’uscita. Eppure è nel suo microcosmo che trova rifugio, giocando al piccolo dio in un mesto paese dei balocchi. Le creature meccaniche di cui si circonda sono allo stesso tempo compagni di vita e servitori, perché J.F. Sebastian è un progettista genetico che “crea amici” quando non è occupato con la Tyrell Corporation.

E nella sconfinata intelligenza che ne farebbe una persona brillante e capace (la passione e bravura negli scacchi ne è un esempio), ecco che il microcosmo torna a gridare, riempiendo le intercapedini fanciullesche del proprio essere fuori dal mondo, animando quello stesso microcosmo con stravaganti imitazioni della vita.

J.F. Sebastian è Pinocchio, burattino tra i propri burattini, uno scarto della società alle sudditanze della Tyrell Corporation, intrappolato in una sagoma legnosa che appassisce rapidamente. Egli soffre infatti della sindrome di Matusalemme, e dal nome è facilmente intuibile quali siano i suoi effetti nel fisico (ma non nello spirito, che resta puro e illibato, ingenuo come quello di un bambino). Nel complesso, questo mimare la vita lo rassicura e lo tiene attivo.

Dai giocattoli ai replicanti: Pris e Roy

Come nella fiaba di Pinocchio, a un certo punto, appaiono il gatto e la volpe – prima Pris la trovatella e poi Roy – a turbarne la quiete di sereno omuncolo. Essi scalzano l’equilibrio del suo microcosmo, sgusciando invadenti e invasivi nel reame dei balocchi, arrogandosi il diritto di essere loro i suoi veri amici, bisognosi di aiuto per subdoli scopi. Come Pinocchio, egli si lascia abbindolare da fuochi fatui di falsi legami, dall’illusione di essere finalmente compreso dalle stesse creature che in parte ha contribuito a creare.

Non sono più i giocattoli i suoi alleati, ma soggetti in carne (sintetica) e ossa (sintetiche), accomunati da un destino simile che è la caducità di una vita prossima alla scadenza (gli androidi Nexus 6 hanno infatti un’autonomia di vita di quattro anni, per impedire loro di prendere coscienza di sé). I microcosmi si incrociano, si riversano l’un l’altro e si uniscono a formare un bizzarro nucleo famigliare.

Uomini e androidi: il pensiero è vita

La parabola di J.F. Sebastian nasce e muore nello scheletro dei Bradbury Apartmens. È una traiettoria breve, come la sua vita, ma significativa ad aprire una breccia più ampia nei dilemmi etici che il film propone: “Io penso, Sebastian, pertanto sono.” (è Pris stessa a dirlo dietro un languido abbraccio a J.F.), ed essendo gli androidi creature ormai pensanti, sono degne di esistere nel pieno possesso delle proprie facoltà e diritti, esattamente come gli uomini veri? Cos’è dunque che distingue gli uomini dagli androidi?

J.F. Sebastian è un personaggio dalle sfumature contrastanti, duale tra corpo e mente, che coltiva in sé una sorta di peccato originale di cui si macchia ogni volta che osserva Pris e Roy: è in qualche modo complice e connesso a loro a doppio filo, come se avesse trasmesso, creandoli, il proprio gene progerico.

Ma è attraverso il suo sacrificio che, forse, dà finalmente il via a una lotta di classe filosofica e positivista tra padroni e servi, a una rivalsa sulla condizione di subordinazione degli androidi – che sarà poi il leitmotiv del film – espiando quindi i propri sensi di colpa che quegli occhi stanchi e tristi di un vecchio Pierrot hanno espresso così fugacemente, ma così efficacemente.

Alessandra Cingano

Laureata in lingue e letterature straniere, appassionata dell’arte in tutte le sue espressioni, con una predilezione spiccata per la musica e il cinema. Scrivo e leggo nel tempo libero per dare forma al mio mondo interiore perché, come diceva Umberto Eco, “chi non legge, a settant'anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto cinquemila anni”.
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