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Killer di professione: un fucile per amico

Che significa essere un killer di professione, che agisce su commissione, esclusivamente per denaro e con l’unica prospettiva di opzionare altri futuri “contratti”? Soltanto un sicario potrebbe fornire una risposta basata sull’esperienza, sull’abitudine a dispensare morte, di là e di qua del mondo pianificando viaggi che lo portano a posizionarsi vicino al bersaglio da colpire, alla vittima eletta da centrare perché qualcuno ha deciso di toglierla di mezzo.

Se mai riuscissimo a identificare un assassino in mezzo alla folla o all’interno di un locale, oseremmo mai rivolgergli la parola e chiedergli di parlarci del suo “lavoro”, con il rischio di insospettirlo e innescare in lui la volontà di tacciarci… per sempre?

La curiosità di sapere resta ed è Franco Prosperi a soddisfarla facendo parlare Clint Harris, il protagonista del suo poliziesco anni ’60 Tecnica di un omicidio. È il più giovane compare Tony Lo Bello – ansioso di apprendere il mestiere, raccogliere il testimone e scalare le vette del sicariato – a porre domande rivelando nell’esperto mentore l’identità di un uomo ormai stanco, assuefatto dalla propria esistenza fatta di uccisioni, ancora possidente ma non più proprietario di un’anima dai toni malinconici e morigerati.

La vita in un monologo

Sul bancone del night club, intento a bere un drink prima di tornare in azione, il distinto Clint confessa di aver avuto un unico amico in tutti quegli anni, un amico tuttavia da non guardare mai negli occhi, anzi in quell’unico occhio buio e profondo, oblungo, capace di mettere paura, di zittire e annichilire. Dalla maggiore età, l’uomo si è trasformato in killer implacabile, preciso e meticoloso, fondamentalmente triste perché quella trasformazione gli è stata imposta e, al pari della droga, ha generato una dipendenza ardua da sconfiggere.

Tony Lo Bello:Che cosa facevi prima?

Clint Harris:Prima di diventare un assassino di professione? Niente.

T:Ti eri messo a lavorare per conto tuo, vero?

C:No, del governo. Mi arruolarono a 18 anni, mi diedero un fucile e mi spedirono nel Pacifico a sparare.

T:Ma… era diverso.

C:No, è che allora uccidere era legale. Vedi, se tu impari a far bene il tuo lavoro, ma veramente bene come è successo a me, non so… cambia qualcosa qui dentro (si tocca la tempia con l’indice). Cominci a credere che il tuo unico amico sia il fucile. Ti preoccupi di lui, lo proteggi, ci dormi insieme… Io certe volte mi sorprendevo persino a parlarci! Dopo un po’ quelle figure che vedi nel mirino diventano né più né meno che dei bersagli, e tu pensi a colpirne più che puoi. Poi il governo non ha più bisogno di te e tu vai in cerca di qualcuno che ti paghi per sparare. È l’unica cosa che sai fare. Tu sei ancora in tempo, la tua guerra è stata breve e meno dura, e finora hai vinto tu. Pianta tutto e vattene!

Samuele Pasquino

Classe 1981, mi sono laureato in Lettere presso l'Università degli Studi di Torino. Giornalista dal 2012, ho studiato storia del cinema specializzandomi nell'analisi di pellicole di tutti i generi dalla nascita della Settima Arte a oggi. Tenendo ben presente il concetto di lettura non come intrattenimento bensì come formazione, mi occupo da anni anche di turismo e realizzo reportage di viaggio. Estremamente sensibile alla tematica enogastronomica, tratto la materia con un'attenzione specifica verso la filiera di qualità fra tradizione e innovazione. Per me il giornalismo non è solo una professione, è una missione!
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