Rick, il cavaliere errante. Rick che vaga brancolando alla luce del giorno, lontano dal sole. Rick che ruota attorno a se stesso, smarrito nel mondo di Knight of cups o Le oasi del caos. Lo spaesamento impresso sul volto di Christian Bale è il nostro, “damerini” erranti dentro un universo che, oltre a offrire la sua immensa vastità, dà lo spunto per tutta una serie di punti interrogativi di natura filosofica.
Allora a impressionarci in particolar modo non sono tanto le innumerevoli immagini a ridosso della devastante bellezza del creato, quanto piuttosto le scene in cui Rick se ne sta al chiuso nella sua spaziosa ma spoglia dimora. Dei ladri gli dicono in sostanza: “Sei ricco ma dall’interno della tua casa sembri più povero di noi”.
Rick che…
Rick che poggia la fronte sul finestrone del salone affacciato a una delle tante lunghe strade di Los Angeles, la sua città, la Babele del peccato e dell’ordinario sfilare lungo percorsi di benvolute tortuosità, insopprimibili al vento.
Rick che dal suo appartamento, condiviso con una miriade di supreme bellezze femminili con le quali finisce per condividere meno di quel che sembri, si mette letteralmente a caccia di una meta ideale, traccheggiando caracollante a piedi, semovente, o impettito sfrecciando sulle autostrade assolate della California, giù lungo i miracoli del creato, le vaste pianure, le grandi montagne, l’immenso mare.
Rick che, esitante, fa il suo ingresso in uno dei club per spogliarelliste più frequentati della città, tentando di comunicare con un’avvenente bionda. Le notiamo il lato B (e non l’unico del film), perché Malick ce lo impone con un campo medio dal basso verso l’alto, ma non è la prospettiva di Rick, pare essere la nostra, in quel preciso istante è come se ci trovassimo accanto al regista.
Rick è incastrato nel vortice del non disegno dei suoi astri morenti (nascenti?), mentre il flusso di esterni e interni si propaga smisuratamente, sempre secondo un immenso lavoro di montaggio in quattro unità corrispondenti ad altrettanti montatori.
La prigione e l’ignoto senza una reale via di fuga
Rick si abbassa, quindi si piega per entrare nella larga ma bassa gabbia che la bionda sembra aver costruito apposta per lui, e sotto sotto lei è una delle tante, lo sta invitando a perlustrare la prigione che si è auto-costruito. L’ignoto, come erroneamente si credeva, non ha una traccia, si può provare a seguire il sentiero e infilarsi nel mezzo, evitando di rimanere appesi a un passato taroccato dagli adulti che non riconoscemmo e che non vedremo più.
Rick che entra, Rick che esce, che viene, va; così le sue donne sembrano tutte uguali, come lo sguardo del regista texano, uguale a se stesso, involuto, peregrinante, rappresentante la punta acuminata dell’incanto dell’albero della vita.
Rick e le carezze, Rick e gli occhi dolci, Rick e quel modo di baciare impotentemente privo di passione, vacuo, costantemente innestato in un modo di fare “flirtoso”; Rick e le lacrime strozzate in gola lungo tutto l’arco del film, Rick e la collera deformata del fratello. Rick, i loro corpi incompiutamente accessibili, mentre tutto gira roteando all’indietro. Vuoto cosmico, una via di fuga al medesimo punto di ritorno.