Affermare che la sceneggiatura su cui è costruito tutto il plot di Codice: Swordfish (Dominic Sena, 2001) sia geniale non può trovare nell’ambito dell’obiettività critica alcuna considerazione opposta. Nello scopo di intrattenere, sorprendere e, perché no, filosofeggiare in altalenanti deliri ponderati e surreali, questo cinetico spettacolo filmico naviga le acque dei generi con disinvoltura notevole.
Passa infatti assai agilmente dall’action al thriller, dalla fantapolitica al gangster movie, creando un sinuoso collegamento teso alla completezza attiva della narrazione, senza però seguirne un’accademica linearità cronologica.
Il prologo: mettere a fuoco Gabriel
Il prologo riassume tali considerazioni stilistiche, esaltando la capacità di una singola scena di inglobare e riesprimere uno script quasi teatrale.
Giusto il tempo di apprendere il titolo del film da una scritta in videata, che subito irrompe l’ambiguo volto di un personaggio ansioso di comunicare una sua visione morale allo spettatore, intento espresso dal suo sguardo fisso sulla cinepresa. L’inquadratura digitale diviene nitida, così come le parole di Gabriel, che acquistano ogni secondo un senso ben preciso: l’argomento è Hollywood e il suo modo di fare cinema.
Prima ancora di concentrarsi sul significato del discorso, lo spettatore si chiede naturalmente chi sia costui che con tanta spavalderia e autorità si rivolge a lui. Ecco dunque spiegata la prima scelta registica di Dominic Sena: evitare la centralità del volto eseguendo lievi movimenti di macchina che spostano Gabriel da sinistra a destra, rendendolo con giochi di messa a fuoco ancora più ambiguo e indefinito.
Nel primo piano ossessivo e al limite del livello successivo (il primissimo piano), questo personaggio seguita a parlare, rivolgendo ora lo sguardo altrove e facendo intuire altre presenze nello stesso ambiente. Il monologo si fa più fitto e articolato, inducendo Gabriel a cambiare inflessione e tono, scandendo questo cambiamento con l’accensione del sigaro. Sena, ora, lo riprende di fianco e poi esercita un allontanamento che conferma il sospetto di una compagnia altra, personalità silenti che ascoltano seduti il soliloquio.
Passa ancora qualche attimo e poi il “moralista” si trova a condividere l’inquadratura con una coppia di interlocutori, ai quali viene data la possibilità di interagire verbalmente con poche battute, ma tali da mutare un monologo in un dialogo breve e conciso. Tecnica di ripresa ineccepibile, certo, che delinea una descrizione repentina ma efficace, nella quale occorre riprendere il nocciolo della summa eloquente.
Mancanza di realismo nel cinema americano
Gabriel parla di cinema americano e lo fa ammettendo la sua ignoranza in materia, parlando da spettatore puro e semplice. La sua critica nei confronti delle sceneggiature a stelle e strisce è immediata e pungente, senza fronzoli, senza complimenti, facendo emergere il vero punto debole: la mancanza di realismo.
Il (quasi) monologo su Quel pomeriggio di un giorno da cani
La sua denuncia chiama in causa il celeberrimo film di Sidney Lumet, ovvero Quel pomeriggio di un giorno da cani, in cui un giovanissimo Al Pacino (siamo nel 1975) interpreta un rapinatore che irrompe in una banca e, nella tensione di 24 ore tese e concitate, diviene una sorta di eroe agli occhi dell’opinione pubblica riunita ai margini dell’edificio attraverso la folla mediatica.
La pellicola di Lumet, nel suo proposito, sconvolge ma senza eccessiva violenza, spostando il baricentro sul piano sociale ed eleggendo un criminale a bocca della verità per quanto concerne la condotta morale delle istituzioni, alquanto deprecabili. La vicenda si conclude con un lieto fine (dipende dai punti di vista), il trionfo delle forze dell’ordine sul tentativo sovversivo del delinquente.
Gabriel, tuttavia, rimane basito dall’ordinarietà e scontatezza dell’epilogo, dal momento che la realtà si profila ben diversa. L’intento di finzione, tipico della Settima Arte, è un concetto che a lui sta stretto e ciò in parte svela la sua natura di terrorista, ancora completamente nell’ombra e lungi dall’essere scoperta.
Gabriel: “Il guaio di Hollywood è che… produce merda, inaccettabile e inarrivabile merda. Io non sono un rozzo e aspirante cineasta, in cerca dell’esistenzialismo dentro una pipa carica di marijuana. È facile infierire sulla cattiva recitazione, sulle scelte di regia, sui minestroni di parole che tante produzioni oggi definiscono ‘sceneggiature’. No, io denuncio la mancanza di realismo. Il realismo, un elemento che non permea la moderna cinematografia americana.
Quel pomeriggio di un giorno da cani, forse il miglior film di Al Pacino, escludendo Scarface, e Il Padrino: Parte I. Magistralmente diretto, il capolavoro di Sidney Lumet. La fotografia, la… recitazione, la sceneggiatura, tutto perfetto ma… ancora non hanno varcato il limite. E se per esempio… per esempio in quel film Sonny avesse potuto farla franca, ma veramente farla franca…
E se – ecco la cosa intrigante – se avesse ucciso gli ostaggi subito, senza pietà nel quartiere, esaudite le richieste questa bella biondina si becca una pallottola alla nuca, bang, sangue. Ancora niente autobus? E quando mai! Quante vittime innocenti in bella mostra ci sarebbero volute per convincere le autorità a cambiare la strategia nelle crisi con ostaggi? Siamo nel ’76, non c’è la CNN o la CMBC, non c’è neanche internet.
Porta tutto ai giorni nostri, adesso, identica situazione. Quanto impiegherebbero i media a scatenare la frenesia collettiva? Questione di poche ore, diventerebbe la notizia del giorno da Boston a Budapest. Dieci ostaggi giustiziati. Venti, trenta. Senza sosta, bang, bang, uno dietro l’altro. Tutto ripreso in alta definizione, col computer che esalta i colori. Quasi la tocchi la materia grigia. Per cosa, un autobus, un aereo, qualche milione di dollari peraltro assicurati? Ehhh, non credo, però è un’idea. Certo non è… non rientra nei canoni tradizionali del cinema.“
Individuo: “Non sarebbe stato giusto per quel film.“
Gabriel: “Davvero?“
Individuo: “Non avrebbe avuto successo.“
Gabriel: “E come mai?“
Individuo: “Il pubblico ama il lieto fine.“
Gabriel: “Lui scappa con tutti i soldi, il suo amante fa il cambio di sesso e vissero felici, no?“
Stanley: “No.“
Gabriel: “Ah… ah! Omofobia.“
Stanley: “Il cattivo non può vincere. Il finale deve essere edificante, in un modo o nell’altro il cattivo deve morire.“
Gabriel: “Mmh, beh… La vita è più fantasiosa della fiction, a volte.“
Sena propone un fulgido esempio di metacinema parlato che fa riflettere e introduce una vicenda carica d’azione, in cui il magnetismo di una personalità come Gabriel non può che affascinare, confermando l’idea secondo la quale è il lato oscuro del personaggio a destare, rispetto alla sua bontà, maggior attenzione.