Cristo si è fermato a Eboli è il capolavoro letterario in cui Carlo Levi esprime con tutta la malinconica energia della sua tormentata penna la riscoperta di sé attraverso la conoscenza della cultura contadina, una società ai margini, chiusa entro gli stretti e desolati confini di Aliano, in un esilio perpetuo, in un inconsapevole sottrarsi al progresso e al corso degli eventi storici.
Quelle pregne pagine del romanzo, Francesco Rosi le ha sapute trasformare in immagini indimenticabili, liriche, estremamente potenti nel descrivere una civiltà perennemente ammainata, ignorante ma viva, trainata da poeti artigiani, agricoltori cantori, muse silenziose in abito nero, braccianti filosofi e… un esattore musicista. Quell’esattore, interpretato da un intenso Peppino Persia, ci regala la sequenza più bella ed evocativa della versione in celluloide di Cristo si è fermato a Eboli.
Minestra, pane e vino accanto al fuoco
Il suo confronto con il protagonista Levi non è dialettico e non vuole esserlo in alcun modo. L’esattore delle tasse porta in quella casa la solitudine ch’è costretto a patire ogni giorno, e assume la forma del freddo di cui egli tanto si lamenta entrando, avvicinandosi al fuoco per potersi riscaldare. Così ha inizio una scena caratterizzata da inquadrature tanto significative ed esteticamente ragionate da sembrare dipinti. La postura di Levi ci ricorda immediatamente Il mangiatore di fagioli di Annibale Carracci, ma l’atmosfera rimanda senza dubbio a I mangiatori di patate di Vincent Van Gogh.
Donna Carmela, sullo sfondo, lavora a maglia in un sacro silenzio, fa presenza e osserva con sguardo basso, discreto. È in quel momento che due solitudini s’incontrano sotto la fioca luce di una lampadina. Nelle mura scrostate e malandate si percepisce la miseria, la decadenza di un’abitazione che comunque offre riparo e la generosità incondizionata delle proprietarie. Bastano un camino acceso, un piatto di minestra su una tovaglietta bianca, una fetta di pane tagliata spessa e una bottiglia di vino per dare sollievo a due anime afflitte.
La dignità dell’esattore è subito evidente. Potrebbe ottenere un po’ di minestra ma non la chiede, anzi tira fuori dalla borsa un fagotto e all’interno un pezzo di pane, ch’è tutto ciò che ha per sostentarsi. Appare lampante la sua indigenza, ma il commensale gli porge un bicchiere di vino mentre un’altra donna serve sulla tavola del formaggio. Si beve insieme, si condivide lo spazio, si riscopre il piacere semplice di stare insieme pur non conoscendosi.
Un breve racconto di vita
Il gracile esattore ha voglia di parlare e Carlo diventa una sorta di confessore-confidente dell’uomo, la cui voce rotta e precaria vomita un’amarezza profonda, di quelle veramente pesanti da sostenere. Nel suo breve racconto di vita emerge la durezza della demonizzazione popolare alla base della sua sofferenza, che fa dell’esattore delle tasse un mostro da odiare e cacciare.
Negli occhi di Peppino Persia il dolore e il disagio si fanno tangibili: il suo sguardo è toccante, il tono commovente.
Esattore: “Permette che mi siedo?“
Carlo Levi: “Prego!“
E: “Che mangia?“
C: “Ehhh… la minestra.“
E: “Buona. Voglio prendere anch’io un pezzetto ch’è non ho mangiato da ieri sera… sto digiuno.“
C: “Mi scusi, cosa significano quelle due lettere sul cappello, UE?“
E: “Questo è Ufficiale Esattoriale. Bestemmia sempre quello che mi ha cucito queste due lettere sulla capa. Le tasse non le vuol pagare nessuno. Per la scusa che dicono che siamo poveri. Siamo… però i maiali ce l’hanno tutti appesi sotto ai tetti, salciccia, soppressata, ventresca, c’hanno tutto mentre a casa mia vedi, un pezzetto di pane con un po’ di formaggio, e così mi arrangio.“
C: “Vuole un po’ di vino?“
E: “Se c’è…“
C: “Sa che le tasse… sono un po’ forti“
E: “Ehh, so forti… so quelle che sono. Noi non è che le prendiamo noi. Noi siamo soltanto quelli che le facciamo pagare. E che ci vogliono dare.“
C: “E così lei va lì e prende quello che c’è?“
E: “Quel che c’hanno, mi prendo. Mobili non ce n’è. C’hanno il letto… Il letto per legge non si può togliere.“
C: “E che cosa le danno?“
E: “Ehhh quello che c’hanno. Per esempio se c’hanno una capra, me la prendo. Un coniglio me lo prendo pure. Se qualcuno c’ha una formetta di formaggio, mi prendo anche quella. Delle volte pure una bottiglia d’olio, me la prendo. Malo mestiere, brutto! E mi odiano… mi odiano tutti! Addirittura l’altro giorno a Miglionica: con una mazza con una testa così. Mi seguivano appresso che mi volevano spaccare la testa. E a Ferrantina, uno si è permesso col fucile a venire appresso che mi voleva sparare. Malo mestiere! Purtroppo dobbiamo campa’.“
C: “Mi tolga una curiosità: cosa c’è dentro quell’astuccio?“
E: “Quell’astuccio? Quello è la mia salvezza! Quello mi fa togliere tutta la rabbia che c’ho davanti a tutta questa gente. Questo quando mi allontano dalla gente… le faccio vedere. Vde quant’è bello?“
C: “Ehh, è bello!“
E: “Questo mi toglie tutta la rabbia mia, il veleno che mi danno tutta questa gente. Questo è un clarinetto. Io suono nella banda di Stigliano.“
Attacca a suonare e quelle note – quasi una ninna nanna – hanno il potere di rischiarare le tenebre, disegnare il sorriso sui volti e allietare una serata mesta ma piacevole.