Chiunque abbia letto il romanzo La tregua di Primo Levi, non sarà rimasto immune da una strana sensazione, simile in tutto a quella che si prova dopo una lunga malattia, in uno stato di convalescenza: una specie di paura e insieme un misto di entusiasmo, di euforia, una sorta di impazienza mitigata dall’impossibilità effettiva di agire.
È proprio in questo strano limbo che si aggirano i pensieri del lettore, quando prende in mano il libro. Gli stessi forse che hanno ispirato l’autore.
L’opera in questione parla della fine della guerra, della liberazione dei sopravvissuti ai campi di concentramento nazisti. Eppure, in tutto questo non c’è gioia ma soltanto il dolore per ciò che è stato e uno stupore incredulo di fronte alla vita, che nonostante tutto scorre ancora nelle vene. Da questo romanzo è stato tratto un film, il cui titolo è proprio La tregua, trasposizione cinematografica fedele alla fonte letteraria, tanto fedele da restarne inevitabilmente offuscato.
Nonostante ciò, anzi proprio per questo, la pellicola diretta da Francesco Rosi nel 1997 risulta coinvolgente e vivace, e le immagini che ci propone sembrano uscite dal libro stesso. Tra i tanti personaggi di questo racconto, uno in particolare si è stampato nella mente di lettori e spettatori: si tratta di Mordo Nahum, detto semplicemente ‘il Greco‘.
Il Greco fra saggezza del popolo e saggezza dei secoli
Nella trasfigurazione mitica che avvolge quasi tutti i personaggi, ‘il Greco’ si trova ad assumere una posizione di rilievo, quasi statuaria, che lo accomuna ai grandi dei della sua terra.
In lui è così connaturata l’urgenza di vita, che l’autore non può fare a meno di stupirsi: sembra non riesca aprovare rimpianti, afflizione o tantomeno malinconia.
C’è solo un’estrema tensione della mente, un’attenzione totale al qui e ora, un raziocinio sottile come la lama di un pugnale. Questo greco farà da guida a Levi nei primi tempi dopo la lunga prigionia. Gli insegnerà a barattare e ad avere ragione degli uomini, facendo rendere al massimo i pochi oggetti in loro possesso.
L’ex deportato avrà molto da imparare da lui, pur essendo infinitamente più colto: in quell’uomo infatti sopravvive la saggezza di un intero popolo, e non solo. La sua è l’intera saggezza dei secoli, quella particolare astuzia amalgamata col buon senso, la stessa che ha permesso alla specie umana di perpetuarsi nel tempo nonostante tutte le avversità; l’attaccamento alla vita che nessun orrore potrà mai estirpare.
L’insegnamento delle scarpe
L’episodio che andremo a rivedere ha inizio su un treno, un treno lentissimo che a fatica riporta i superstiti a casa, o che almeno li avvicina. Sono tutti ammassati nei vagoni stretti, dove quasi non si respira e ci si muove a stento.
La prima cosa che vediamo sono le scarpe rovinate di Primo, le sue suole disfatte. In mezzo alla folla stipata c’è uno strano personaggio che parla e parla: è proprio lui, ‘il Greco’.
Primo si sporge e comincia a guardarlo. La prima cosa che vede, anche lui, sono le scarpe: scarpe stavolta nuovissime, linde, tutte borchiate di ferro. Quando arriva il momento di scendere dal treno – siamo a Cracovia, città semidistrutta – il destino vuole che sia proprio Mordo Nahum ad accompagnare l’autore per quelle strade sconosciute.
I due non si parlano quasi mai. A un certo punto, Levi è stanco e sedutosi sul bordo della strada ne approfitta per cercare di rabberciare alla meglio le sue vecchie scarpe:
Il Greco: “Ma che fai? Non vai da nessuna parte, così! Adesso ti faccio vedere.”
Detto ciò, gli si siede accanto, e gli fascia le scarpe con dei pezzi di stoffa.
“Quanti anni hai?”
Primo Levi: “Quasi trenta.”
Il Greco: “E che lavoro fai?”
Primo Levi: “Sono chimico.”
Il Greco: “E anche stupido. Uno stupido senza scarpe!”
Si ferma, e lo fissa dritto negli occhi.
“Quando c’è guerra, due cose servono: prima scarpe e poi mangiare. Perché chi ha scarpe, trova mangiare, ma per chi è come te non c’è alcuna speranza!”
Primo Levi: “Ma la guerra finirà, e allora tutto diventerà più facile!”
Il Greco: “Guerra è sempre!”
Infatti. Quella guerra, in fondo, non è mai finita. Quella, come tutte le altre guerre. Così scrive Primo Levi nel suo libro: “Nulla mai più sarebbe potuto avvenire di così buono e puro da cancellare il nostro passato. I segni dell’offesa sarebbero rimasti in noi per sempre”. È la natura insanabile dell’offesa. Quando la Storia avanza e colpisce, lascia ferite profonde. Il tempo può forse alleviare le pene, ma non le estirpa. E il livido è lento a passare.