“Il volto è la nostra identità” – afferma Robert, chirurgo plastico protagonista de La pelle che abito. Questa è una delle battute chiave della pellicola di Almodovar: il volto, la pelle, l’esteriorità come segno della corrispondenza tra apparire ed essere; un abito che Robert, spinto da motivazioni personali, cuce letteralmente sullo sventurato corpo della sua vittima.
Esorcizzare la morte: il mito di Frankenstein
L’uomo si erge a creatore divino in questo film allucinatorio, in cui il personaggio principale riporta in vita con la tecnica la moglie defunta. È il vecchio mito di Frankenstein che rifrange la sua eco su un presente iberico e si avvale del contesto della modernità e di implicazioni sessuali alla Almodovar.
È come dire un tentativo di esorcizzare la morte attraverso un’abilità che è anche un’arte perché ricerca la perfezione, la bellezza, l’eternità.
Il narcisismo di Venere nel nudo d’autore
Ecco che l’immagine si svela nel suo narcisismo attraverso citazioni come l’enorme Venere adagiata su un drappeggio rosso addossato alla parete che precede la stanza in cui è rinchiusa Vera: un preludio. La stessa immagine verrà riproposta dallo schermo della telecamera a circuito chiuso con cui Robert osserva a distanza la meraviglia.
Di ritorno dal lavoro, l’uomo si toglie il cappotto e accende l’enorme monitor, si siede su un divanetto di pelle rossa e contempla la sua creazione che, come nel quadro di Tiziano, è allungata sul letto in un sensuale nudo d’autore.
La stanza: proiezione esterna dell’interiorità
Vera è costretta entro le pareti di una stanza della lussuosa casa del chirurgo, dove di giorno in giorno la sua identità viene suo malgrado modificata. La stanza diviene dunque la proiezione esterna della sua interiorità.
Sul muro annota le date, disegna corpi di donna nudi con il volto coperto e poi distrugge vestiti femminili, pratica yoga, guarda corpi di fantocci tumefatti alla tv e aspetta l’ora della libertà.
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