È buona norma – secondo codice del perfetto cinefilo – affrontare la visione di una pellicola soltanto dopo aver letto il libro dal quale essa è tratta, così da poter operare un lecito confronto e innescare una critica suffragata dal quadro d’insieme, dalla comparazione cioè di fonte letteraria e sua trasposizione. Esiste tuttavia l’eccezione che conferma la regola e, a dirla tutta, può addirittura essere in grado di partorire un autentico mito, irremovibile in virtù della sua portentosa natura.
Quell’eccezione è Lo squalo (Jaws), il capolavoro e capostipite degli shark movie diretto nel 1975 da un giovane Steven Spielberg. Si ispira all’omonimo romanzo scritto appena un anno prima da Peter Benchley, che venne coinvolto attivamente nel progetto cinematografico dai produttori Richard D. Zanuck e David Brown. Gli affidarono la sceneggiatura, scelta saggia e logica poi vanificata dalla completa riscrittura di Carl Gottlieb in fase di lavorazione.
Il motivo della revisione lo si può capire (ma non comprendere) soltanto dopo aver letto il libro, cosa che moltissimi fan del film ad oggi non hanno ancora fatto. Val la pena rimediare al più presto e constatare come i due prodotti risultino alla fine molto diversi, accomunati dalla nomenclatura dei personaggi – mantenuta nella versione celluloide – ma divisi dall’approccio narrativo, assai realistico e pessimista in Benchley, avventuroso, risolutivo e perbenista in Spielberg.
Lo Squalo, un film non fedele alla sua fonte letteraria
Lo Squalo è senza dubbio “culturalmente, storicamente ed esteticamente significativo” secondo definizione della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti (da qui l’inserimento nel National Film Registry), ma di certo non fedele alla storia originale. Come detto, sono parecchi i punti d’accordo e raccordo, ma ben più numerosi gli “accomodamenti” per rendere la pellicola più commerciale, vendibile ed edificante.
Libro e film hanno eguale principio, la morte di Chrissie durante il bagno notturno: una scena giocata visivamente sulla scarsa luce, l’occultamento dello squalo, gli strattonamenti violenti della ragazza che poi scompare. Il libro di Benchley, però, ha una partenza sprint descrivendo in maniera più truce e cruda l’attacco, menzionando la gamba strappata, la sofferenza di Chrissie e l’agonia prima di sparire fra gli abissi. E ci va giù pesante anche in occasione dello shark attack subito dal povero Alex, il ragazzino sul materassino giallo.
I personaggi scomodi di Benchley diventano buoni
Soprassedendo sulla distinta rappresentazione del doppio omicidio compiuto dalla bestia, non si può invece chiudere gli occhi parlando della caratterizzazione e lo spazio concesso alla comunità di Amity, due fattori fondamentali che Carl Gottlieb ha mascherato quasi stravolgendoli, nel tentativo – riuscito – di riscuotere le simpatie degli spettatori.
Tutti ci siamo fatti una chiara idea – impiantata dal Jaws cinematografico – dei personaggi chiave, ovvero Martin Brody, di sua moglie Ellen, di Matt Hooper e Quint. Un’idea travisata da un soggetto asservito al gradimento. Questo perché alla maggior parte delle platee non sarebbe piaciuto un parterre di protagonisti quasi al limite della tollerabilità, capaci di trasmettere negatività e, soprattutto, suscitare contrarietà nei rispettivi comportamenti.
Se ne Lo squalo spielberghiano l’alcolismo del capo della polizia Brody resta sottinteso, legato al passato e al vissuto di New York (sebbene continui ad abusare di vino e birra), nella Benchley’s version ci viene raccontato un uomo piuttosto irascibile, dedito ad alzare spesso e volentieri il gomito mettendo in imbarazzo la consorte specialmente nelle occasioni mondane, dove cene, buffet e open bar la fanno da padrone.
Dal canto suo, Ellen Brody una santa non lo è di certo, mostrando una scarsa passionalità (tendente alla frigidità) nei confronti del marito ma arrivando a tradirlo dopo aver ceduto alle lusinghe dell’oceanografo Matthew Hooper, amicizia di vecchia data. Il tradimento si consuma in un’anonima camera di un motel, in modo squallido, senza sentimento, con un violento missionario destinato a durare su Ellen appena qualche minuto.
Benchley insiste sull’alone antipopolare di Hooper, fondamentalmente un piccolo uomo, viziato, erede di una fortuna, abituato ad avere tutto, in cerca di quella gloria che finalmente la grande bestia dell’oceano gli può dare. Niente a che vedere con il character interpretato da Richard Dreyfuss, molto più incline a far sorridere e che nel film non ha mai conosciuto Ellen prima della sera dell’autopsia sullo squalo tigre.
Che dire di Quint? Solo enunciare la constatazione del fatto che il personaggio letterario e la sua proiezione sul grande schermo coincidono, con un plauso per Robert Shaw, a dir poco fenomenale.
Lo squalo: per Amity è il Giudizio Universale
La forza del libro di Benchley risiede nel ritratto che offre, quello di una società la cui esistenza sta sul filo del rasoio, dipendente dalla riuscita della stagione estiva, dall’affluenza dei turisti, dal funzionamento dei servizi in seno alla comunità di Amity, seriamente minata dal predatore, non un reale antagonista ma più verosimilmente l’incarnazione del Giudizio Universale.
Il finale del Jaws letterario se ne frega dell’orizzonte di attesa, è inimmaginabile e no, non è affatto quello messo in scena da Spielberg.