Anima Persa: particolare e riuscita variazione nel cinema del grande Dino Risi. Quest’opera drammatica è tinta d’ombra, atmosfere fredde, opprimenti e signorili. Una Venezia decadente come lo stesso palazzo che racchiude la vita misteriosa di Fabio Stolz (Vittorio Gassman) e la moglie Elisa (Catherine Deneuve): Palazzo Fortuny.
Tino, il nipote ospitato in casa, è il pretesto per cui la storia può svolgersi. Se non ci fosse questo personaggio cardine per cui viene inscenata l’opera (fortemente teatrale), la storia non avrebbe motivo di esistere. Una vicenda al limite del terrore e della decenza, che deve essere tenuta nascosta al giovane Tino, ma che invece sembra voler essere scoperta dagli stessi protagonisti per amor di spettacolo (e di una perversa forma di vanità).
Spiegare la pazzia
Arriva il momento il cui l’ingegnere deve spiegare l’esistenza del fratello Berto, impazzito e tenuto chiuso in soffitta, accudito in tutto esclusivamente dallo stesso Fabio. Così, isolati dalla realtà, nei meandri di una chiesa, la voce vibrante dell’autoritario zio può spiegare allo spaurito nipote la Pazzia.
Fabio è preso dal trasporto nel rivelare l’essenza della folle esistenza del fratello. Tino ascolta sempre tra imbarazzo e incertezza, o forse a questo punto della storia già in lui si è insinuata, insieme al sospetto, la paura nei riguardi di quel grave personaggio.
Lo zio si mostra sempre più temibile. I due passeggiano l’uno accanto all’altro ma è Fabio che conduce; attraversano i lunghi corridoi e le aule della chiesa.
Fabio: “Come sono vuote le chiese. Solo i cinematografi sono pieni. È lì che la gente oggi va a confessarsi. E così l’hai visto eh?“
Tino: “Chi?“
Fabio: “Mio fratello. Il demente.“
Tino: “Scusa zio, io…“
Fabio: “No non ti scusare, non dirmi niente. Meglio tacere che mentire. Mio fratello in effetti era un uomo nobile, elevato. Professore illustre, scienze naturali, si occupava soprattutto di insetti. E aveva sviluppato una teoria interessante, cioè che Dio non va cercato al di sopra, ma al di sotto di noi. Sì, riteneva più probabile trovare le tracce di Dio negli insetti. ‘Perché?’ – diceva – ‘alzare lo sguardo quando si pensa a Dio? No! Abbassiamolo invece! A indagare nelle forme di vita più misteriose. Dio è una formica! Dio è un’ape. Fra gli insetti dobbiamo cercarlo.’
Una volta staccò il crocifisso che teneva sempre a capo del letto e vi attaccò sopra l’ingrandimento di uno scorpione. Andavamo molto d’accordo io e lui. In un certo senso lo invidiavo(l’ingegnere comincia a mettere delle monete in una cassetta delle offerte. Sotto le sue parole le monete rintoccano una a una, lentamente). Io in fondo avevo scelto una carriera abbastanza banale, ingegnere del gas, mentre lui era a contatto con l’assoluto, con i grandi misteri della natura. Un mondo sconosciuto no? Meraviglioso.
E poi non credere che fosse uno scienziato prigioniero del suo lavoro, della sua ricerca, tagliato fuori, no anzi, anzi (Fabio invece di mettere l’ultima moneta nella cassetta la trattiene in mano, la soppesa qualche istante, poi la ripone in tasca) viveva con una partecipazione totale. Amava, soprattutto. A poco più di vent’anni ebbe un amore terribile per… va be’, i particolari non contano. Ma fu un amore sconvolgente. Per una creatura che poi, capisci, si rivelò diversa da quello che era; e gli lasciò una ferita incurabile.“
Il dialogo continua con la stessa tensione, ma sarebbe un abuso riportarlo per intero. Meglio ricercarlo.