La vita di un uomo non si esaurisce nella sua biografia, o in un racconto, e tantomeno in un film. Ciò nonostante, il cinema non si è mai tirato indietro, ha affrontato la sfida e a volte ha ottenuto risultati brillanti. È il caso questo di Quarto potere, l’opera che forse, insieme a 8½ di Federico Fellini, ha scavato più a fondo nell’esistenza del suo protagonista.
Ma se per il regista riminese si trattava di uno scavo psicologico, per Orson Welles si tratta soprattutto di un approccio esistenziale: la vita del suo personaggio è ricostruita attraverso i ricordi – e quindi anche le simpatie e gli umori – di chi gli è stato vicino. Si tratta perciò di una ricostruzione necessariamente parziale, estemporanea, che non si esaurisce in sé, ma fornisce i presupposti per un’ulteriore, inesauribile ricerca.
L’invenzione di un nuovo linguaggio
Il pregio maggiore di Quarto potere, tuttavia, non va individuato nei contenuti, anche se importantissimi, quanto nell’invenzione di un nuovo linguaggio. Mai prima di allora il cinema aveva saputo parlare così chiaramente, raccontare l’indicibile. E tutto questo lo ha fatto affidandosi ai propri mezzi, affinando le proprie capacità espressive.
Sviluppo irregolare della trama e profondità di scena
Proviamo a citare due esempi. Il film si muove su due binari paralleli: da una parte, lo sviluppo irregolare della trama, che procede per piccoli blocchi staccati, in un montaggio stringente e concentrato di grande efficacia narrativa; dall’altra, la profondità di ogni singola scena, anzi di ogni fotogramma. L’immagine forza i confini del campo visivo, ogni elemento della scena si ispessisce, si carica di significati aggiuntivi, ben oltre il mero dato oggettivo.
Resoconto di un matrimonio
Per quanto concerne la trama, un episodio si impone su tutti. Si tratta del resoconto del primo matrimonio del protagonista, Charles Foster Kane, uno degli uomini più in vista del pianeta, proprietario di un giornale di successo; un matrimonio di interesse, legato al denaro e al prestigio, e per questo destinato alla capitolazione.
La scena si apre con un’inquadratura d’insieme: marito e moglie sono seduti a un tavolo, mentre stanno facendo colazione. I vestiti sono eleganti, ricercati; la stanza è intensamente illuminata, ci sono fiori dappertutto. L’inquadratura si mantiene statica fino a che entrambi vanno d’amore e d’accordo.
Non appena sorgono le prime divergenze, le riprese si spezzano dando luogo all’alternanza canonica di campo e controcampo. Con un’anomalia, però. Diversamente dalla regola classica, questo campo/controcampo non comprende alcuna parte del corpo dell’altra persona, quella che non sta parlando: indizio evidente di incomunicabilità.
Dopo uno stacco brevissimo, nel quale si intravede un treno in corsa – è il montaggio analogico che, oltre al tempo che passa, ci fornisce un’allusione alla vita itinerante del magnate-giornalista – la stessa scena si ripete più volte: gli abiti sono sempre più dimessi, i volti più tesi, invecchiati.
Fino a che, alla fine, una seconda visione d’insieme ci mostra i due coniugi assorti ognuno in una lettura diversa: lui legge il suo giornale, lei quello della parte avversa. È la rottura. In pochi metri di pellicola si concentra una decina d’anni.
Il simbolismo delle immagini
Per quanto riguarda il simbolismo delle immagini, lo si può ritrovare in quasi tutte le sequenze. Noi ne proporremo una, forse la più rilevante. Charles Foster Kane è morto e i giornalisti affollano l’antro d’ingresso della sua enorme proprietà, Xanadu. Di questi personaggi secondari non riusciamo a distinguere i volti perché quasi sempre in controluce, o relegati in vaste zone d’ombra.
La sala è vastissima, tutta gremita di statue, cimeli, oggetti di valore accumulati lungo il corso di una vita. La cinepresa indugia nei piano sequenza. La traiettoria obliqua del suo raggio visivo innesca un rapporto molto stretto e conflittuale tra i personaggi e lo sfondo. Quando poi, in un’inquadratura successiva, l’ingresso è ripreso in tutta la sua interezza, ecco allora che nella nostra mente l’immagine si sdoppia, dando vita a una pluralità di significati che prima non avevamo colto.
Nella mente di Kane
I personaggi che si aggirano spaesati in quel labirinto interminabile di oggetti, sovrastati, sono come esploratori sprovveduti in un paese sconosciuto, alla ricerca di un tesoro irraggiungibile. Il grande salone è la mente di Kane. Quegli oggetti accatastati sono le sue sensazioni, i ricordi, i pensieri che nessuno ormai è più in grado di capire.
I giornalisti se ne vanno. La villa rimane deserta. C’è un cartello appeso fuori, su cui indugia l’obiettivo. È fissato alla rete di metallo che circonda l’edificio e reca scritto: “No trespassing” – “Divieto di accesso”. E con questa metafora si conclude il film.