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Per Delia “C’è ancora domani”: la donna è un’isola e ha un nome luminoso

Photo credit: Luisa Carcavale

La tenerezza che si scontra duramente con la violenza – verbale, fisica e psicologica – è il vero tema cruciale di C’è ancora domani e attraverso il quale si può pienamente comprendere il meritato, sacrosanto successo del film. Il primo lungometraggio diretto dalla poliedrica Paola Cortellesi vive dello spirito nutrito giorno dopo giorno dalla sua Delia.

Lei, vessata dal rozzo, manesco e depauperante marito Ivano fra le mura di casa (che, anziché esserle amiche, delimitano una prigione di turgido dolore), tiene alto il significato del suo nome sfoggiando sorrisi non di circostanza ma di coraggio, di speranza al di là di ogni quotidiana umiliazione. Gli occhi affaticati paiono spenti ma… non rassegnati. Se li osserviamo, vi scorgiamo una vivida radiosità che ne pervade iride e anima.

Delia: il significato mitologico del nome

Delia deriva dal greco Delos (Δηλία), riferibile all’aggettivo “chiaro, luminoso”, e in quest’ottica appare ulteriormente meraviglioso, legato all’idea di luminosità e brillantezza inserite nella poetica fotografia in bianco e nero (senonché affatto chiaroscurale) scelta per rivivere la povera, spontanea eleganza schietta del neorealismo italiano.

Eppure questo splendido nome svela ben oltre suono e semantica delle sue cinque lettere. Secondo precisa indagine antroponomastica, Delia rimanda alla specificazione “di Delo”. Secondo la mitologia ellenica, nell’isola di Delo trovò rifugio la bella titanide Latona, allontanatasi dall’ira di Era per partorire i due figli generati dall’unione con Zeus, i mitici Apollo e Artemide.

Prima di quest’evento, il lembo di terra sperduto nel mare si chiamava Ortigia, mutata in Delo poiché riempita della luce di quella nascita miracolosa quanto divina. Il silenzio ininterrotto dell’isola fu rotto dal pianto di due bambini destinati a diventare dei. Apollo in particolare, è riconosciuto come dio del Sole, della musica, delle arti mediche, delle scienze e dell’intelletto.

Il messaggio potente di C’è ancora domani

Paola Cortellesi ha voluto comunicare qualcosa non solo di importante bensì di universale, conciliatorio e armonioso. Prima di essere dramma, C’è ancora domani vuol suggerire il suo carattere mitologico, ed è un messaggio potente, capace di legare periodi distinti di un segmento cronologico lunghissimo che va dall’antica Grecia agli anni ’40 del Novecento.

Quanto si è evoluta la donna in secoli di storia dell’umanità, di smotamenti sociali, di pangea politica? Molto poco ahinoi, una vergogna che nel film di Paola si traduce in un femminino eternamente declassato, schiavizzato, insultato e malmenato.

Delia non rappresenta la singola individua dell’epoca trattata – l’immediato secondo dopoguerra italiano – ma l’intera categoria di quel tempo. È ancora una volta il nome della protagonista a parlare: essendo adespota (ovverosia senza padrone), non prevede un onomastico in calendario, non corrispondendo a nessuna santa registrata nell’alveo cattolico.

Un antroponimo, due antitetiche prospettive: emarginazione e libertà

È perciò un antroponimo che ambisce a incardinarsi in due differenti, antitetiche prospettive: resta emarginato e fuori da qualunque dimensione, al contempo non rimane imbrigliato nelle convenzioni, è svincolato dai canoni, dunque libero! Emarginazione e desiderio di libertà convivono quali sentimenti interiori nel personaggio afflitto eppur sorridente (finanche docilmente indomito e ribelle) raccontato in C’è ancora domani.

La donna ferita dal marito e picchettata dal suocero, come la sua “antenata” greca ha messo al mondo anche una figlia femmina, Marcella, per la quale immagina un destino diverso, più felice e magari un compagno che le voglia realmente bene rispettandola. Un uomo come l’amore mancato Nino, o il premuroso Peppe al fianco dell’amica fruttivendola Marisa.

A più riprese, è la stessa Marcella a esortare la madre a fuggire, perché in casa Santucci lei “non vale niente e non conta niente”. Il suo “valore nullo” si presta, invero, all’ironia dell’ossimoro.

Il riscatto dell’angelo del focolare

Pur incatenata al concetto fascista di “angelo del focolare”, Delia regge quasi da sola le redini della realtà familiare: svolgendo un’apprezzabile varietà di lavori nell’arco della giornata (tiene in ordine la casa, prepara da mangiare, fa la spesa, esegue riparazioni per una sartoria, aggiusta ombrelli in una bottega, si cimenta in medicazioni e iniezioni a domicilio, fa il bucato per i benestanti), dimostra di valere ben di più della sua vituperata identità di donna. Niente male per una che “non è brava manco a fare la schiava“.

Svilita da un’imperante discriminazione di genere, Delia affronta la vita e perciò esiste, respira e si prepara a una forma di riscatto vibrante, simbolica, epocale. E in qualche maniera arriva a sconfiggere la brutalità machista che sembrava essersi spenta con il progressivo alternarsi delle generazioni.

Un’illusione, date le tristi recrudescenze dell’oggi nuovamente sotto minaccia di femminicidi, sevizie e privazioni nell’ambito di contesti difficili e ambienti di coppia spaventosamente tossici. La Cortellesi e il suo C’è ancora domani si rivolgono nondimeno all’attualità.

Le tante Delia dovrebbero tutte, nessuna esclusa, scappare dai troppi Ivano in circolazione, chiedere l’aiuto dei rari “Willian“, confidarsi con le spiritose Marisa e farsi amare dai meccanici Nino nell’officina del cuore, ballando spensierate con i denti sporchi di cioccolata.

Samuele Pasquino

Classe 1981, mi sono laureato in Lettere presso l'Università degli Studi di Torino. Giornalista dal 2012, ho studiato storia del cinema specializzandomi nell'analisi di pellicole di tutti i generi dalla nascita della Settima Arte a oggi. Tenendo ben presente il concetto di lettura non come intrattenimento bensì come formazione, mi occupo da anni anche di turismo e realizzo reportage di viaggio. Estremamente sensibile alla tematica enogastronomica, tratto la materia con un'attenzione specifica verso la filiera di qualità fra tradizione e innovazione. Per me il giornalismo non è solo una professione, è una missione!
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