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Sergio Martino si racconta: 40 anni di carriera nel cinema di genere

È il regista del “cinema di genere” (definizione troppo stringente in relazione alla sua arte ben più di largo respiro), autore di piccoli e grandi cult, fra i più versatili della sua generazione, 84 anni di cui quasi 40 dedicati alla regia di opere cinematografiche, film e serie TV.

Sergio Martino – conosciuto oltreoceano con gli pseudonimi di Martin Dolman e Christian Plummer – non ha certo bisogno di presentazioni, ma omaggiarlo diventa un dovere cinefilo per tutto ciò che ha regalato al cinema italiano. Negli Stati Uniti d’America ha fatto conoscere il rigore tecnico del Made in Italy, l’arte del ciak tricolore e la maestria del girare quando ancora di effetti speciali non si abusava preferendo l’artificio artigianale, il makeup manuale, il trucco scenico computer free.

Eclettismo di un cineasta di genere

Martino ha contribuito sensibilmente a definire e codificare la più viscerale, folkloristica commedia all’italiana dirigendo pietre miliari quali Zucchero, miele e peperoncino (1980), La moglie in vacanza… l’amante in città (1980), Spaghetti a mezzanotte (1981), Occhio, malocchio, prezzemolo e finocchio (1983) e l’esilarante L’allenatore nel pallone (1984).

Sempre lui ha apposto la sua firma su gialli come Lo strano vizio della signora Wardh (1971), polizieschi quale Milano trema: la polizia vuole giustizia (1973) e il fantascientifico 2019 – Dopo la caduta di New York. La sua filmografia conta 45 pellicole per il cinema e più di 20 titoli per la televisione fra lungometraggi e serie tv.

Il lavoro di Sergio Martino può essere riassunto nella parola probabilmente più congeniale alla sua intraprendenza professionale: eclettismo. Tale concetto emerge nel documentario di Daniele Ceccarini e Francesco Tassara intitolato Spaghetti alla Martino, in cui è soprattutto la prolifica carriera del regista l’oggetto primario dell’indagine.

La nostra intervista a Sergio Martino: sulla strada della memoria

Ma cosa resta di un percorso così importante e in alcuni casi pionieristico? Esistono fili conduttori, una filosofia al principio dell’ideazione? Quali ricordi si legano al suo fare cinema? Cicerone sulla strada delle proprie memorie, Sergio Martino è il protagonista dell’intervista in videocall che ci ha gentilmente rilasciato e di cui riportiamo una sintesi davvero emozionante, ricca di aneddoti e curiosità.

Un viaggio in un cinema che, ahinoi, non c’è più, la Settima Arte più bella della quale è stato fra i primari artefici, stimato da personalità di Hollywood come Martin Scorsese e Quentin Tarantino.

Maestro, il suo ultimo film per il cinema, “L’allenatore nel pallone 2”, risale ormai al 2008, mentre il film tv “Il paese delle piccole piogge” al 2012. A cosa si è dedicato dopo?

Ho lasciato cinema e tv per dedicarmi completamente a mia moglie che purtroppo non c’è più. Dal momento che si era ammalata di Alzheimer, decisi di starle accanto sempre. Il Covid se l’è portata via. Mariolina era una donna straordinaria, estremamente colta, intelligente, di rara finezza e modi gentili, energica e tenera allo stesso tempo. Un riferimento per la mia esistenza e la mia famiglia.

Lei è certamente fra i registi più eclettici della sua generazione e vanta una carriera costellata di opere che hanno contribuito con il loro successo a codificare il cosiddetto “cinema di genere”. Parlando di generi, in quale è riuscito maggiormente a esprimersi?

Ho sempre amato diversificare il lavoro, orientarmi su sceneggiature differenti l’una dall’altra e applicarmi in tecniche distinte che esigevano impegni di diversa natura. I generi li ho percorsi tutti, mi sono dato al western, alla commedia, all’avventura, al poliziesco. Il giallo appariva stimolante perché cercavo di rendere particolare il whodunit senza ridondanze o risoluzioni cicliche. Ho realizzato film diversi da quelli per esempio di Dario Argento, che ha inteso specializzarsi in un genere mentre io non lo avrei potuto mai fare per il rischio alla lunga di annoiarmi. Le pellicole di azione mi impegnavano tanto perché noi registi non avevamo facilitazioni di sorta, nessuna agevolazione e ci prendevamo spesso rischi non da poco. Inseguimenti, sparatorie, lotte corpo a corpo, scontri: bello renderli sulla scena ma altrettanto faticoso prepararli.

Dopo i 3 documentari d’esordio, realizza all’età di 32 anni il primo lungometraggio, “Arizona si scatenò… e li fece fuori tutti”, sequel di “Arizona Colt” girato nel 1966 da Michele Lupo. Quanto c’è di John Ford e quanto di Sergio Leone in quel western?

Lo spaghetti western ha vissuto in Italia e nel mondo una stagione straordinaria, memorabile, merito soprattutto di Sergio Leone al quale ai tempi si ispiravano tutti coloro che volevano dirigere western di qualità. In Arizona si scatenò… e li fece fuori tutti ho cercato di ricreare un po’ l’epica definita da Sergio, specialmente attraverso le musiche. In Spagna trovai degli scenari e dei paesaggi stupendi, ideali per un western. Volevo dare l’idea di uno sfondo sterminato, di ambienti potenti e abbacinanti. E in questo volevo in parte riprendere in campo lungo i paesaggi immortalati da John Ford in capolavori come Sentieri selvaggi e Ombre rosse.

Il decennio anni ’70 si contraddistingue per i suoi gialli d’autore, polizieschi come “Milano trema: la polizia vuole giustizia” e un illustre primo esperimento di commedia all’italiana, “Giovannona Coscialunga disonorata con onore”. Quale e quanto valore attribuiva all’erotismo come elemento di fondo?

Le dico che in realtà Giovannona Coscialunga possedeva ben poco di erotico se pensiamo che in quel film la Fenech si è mostrata a seno nudo in una sola occasione recitando peraltro molto bene. Inizialmente, doveva intitolarsi Un grosso affare per un piccolo industriale, e le dirò anche che è il vero antenato di una commedia romantica molto famosa, Pretty Woman. L’erotismo era invece più presente nei miei gialli, ma più a corredo della violenza. Non avevo nessuna volontà di compiacimento o compiacenza nei confronti dello spettatore. Ai tempi della commedia all’italiana, i critici nostrani abusavano della parola trash e ancora oggi la si usa per etichettare quel filone. Riduttivo se pensiamo che quei film volevano divertire ma anche dire altro e con interpreti di certificata bravura.

Ed eccoci proprio alla commedia all’italiana. Con attori come Lino Banfi, Pippo Franco, Gigi e Andrea, quanto ci si affidava all’improvvisazione? Si sa che alcune delle scene più esilaranti nascevano dalla “recitazione a braccio” o “a canovaccio”.

Consideriamo che a quei tempi i film venivano costantemente doppiati, non erano mai in presa diretta. Quindi più che improvvisare, era la cinetica del corpo ad avere maggior campo libero. Lino possedeva un’espressività divertente ed era un grande professionista con cui ci si frequentava anche fuori dal set. Notevole la sua verve. Oggi ci si vede molto più di rado. Sono stato ospite di recente nella sua Orecchietteria Banfi a Roma, abbiamo parlato e riso. Un buon rapporto l’avevo anche con Pippo Franco, che aveva un senso della battuta sagace. Nel primo episodio di Ricchi, ricchissimi… praticamente in mutande offre un saggio reale delle sue capacità di attore comico. Quella però era una storia tragicomica, con lui padre di famiglia povero in canna desideroso di portare moglie e figli al mare per le vacanze d’estate, arrivando a costruire una baracca abusiva su una spiaggia decadente. L’idea fu presa da un fatto reale cui assistette il mio montatore Eugenio Alabiso. Me lo raccontò e decisi così di inscenare quella situazione.

Nel 1986 dirige “Vendetta dal futuro” sull’onda del successo di Terminator. La pellicola fonde sci-fi, action e sprazzi di poliziesco. Da dove nasce l’idea del film?

Vendetta dal futuro è un film che ricordo ancora con angoscia per la morte sul set di Claudio Cassinelli. Ne rimasi traumatizzato. Era un amico e ce l’ho sempre nel cuore. Quella fu una tragedia che mi ha segnato in maniera indelebile. Successe durante una sequenza in cui l’elicottero sul quale si trovava Claudio doveva passare sotto un ponte. Andò tutto storto: il mezzo non si abbassò abbastanza, l’elica urtò il ponte e l’elicottero cadde. Morì anche il pilota, che il giorno prima oltretutto aveva avuto problemi familiari. Ricordo che Claudio mi chiese di anticipare le riprese in cui lui era presente in quanto doveva recarsi in Francia per recitare in un’altra produzione. La sua carriera stava prendendo piede e nessuno avrebbe mai immaginato un destino simile. Una tragedia. Per il resto, le riprese dell’intero film si rivelarono complicate. Lo girai in America firmandomi con lo pseudonimo di Martin Dolman. Sa, bisognava fare finta di essere un regista statunitense, era la moda di allora.

Anche in quella pellicola chiamò a recitare Luigi Montefiori, meglio conosciuto come George Eastman. Che tipo di attore era?

Ogni tanto con Luigi ci sentiamo. Bravo attore che sapeva scrivere ottime sceneggiature. Fisicità imponente, alto, di notevole presenza scenica. Vi ricorsi spesso, mi trovavo bene con lui, riempiva l’inquadratura, feroce mimica facciale, movimenti imperiosi. Peccato solo non sia stato valorizzato abbastanza dal cinema in generale perché poteva essere anche un attore drammatico. La sua cifra intellettuale non era nota a molti ma io la conoscevo e mi piaceva. Quando lo vidi sul set di Regalo di Natale e il sequel La rivincita di Natale, diretti entrambi da Pupi Avati, fui contento.

Un’ultima domanda. Se le venisse offerta l’opportunità di girare un film a Hollywood e con i mezzi dell’industria cinematografica a stelle e strisce, lo farebbe?

Sono rimasto lontano dal cinema per anni, molte cose non le ricordo più anche se ancora so come si fa un campo lungo, un primo piano, un campo e controcampo (ride). Scherzi a parte, appartengo a una generazione di registi che ricorreva a mezzi artigianali. Quasi non sapevamo cosa fosse un “effetto speciale”, lavoravamo con maestranze abituate a costruire a mano, in analogico e non in digitale, che non esisteva. Io comunque in America ho diretto parecchi film, quindi so come si lavora in quel contesto. Il cinema di oggi è un cinema di intrattenimento, di spettacolo, troppo diverso dal cinema più classico nella vera accezione del termine.

Samuele Pasquino

Classe 1981, mi sono laureato in Lettere presso l'Università degli Studi di Torino. Giornalista dal 2012, ho studiato storia del cinema specializzandomi nell'analisi di pellicole di tutti i generi dalla nascita della Settima Arte a oggi. Tenendo ben presente il concetto di lettura non come intrattenimento bensì come formazione, mi occupo da anni anche di turismo e realizzo reportage di viaggio. Estremamente sensibile alla tematica enogastronomica, tratto la materia con un'attenzione specifica verso la filiera di qualità fra tradizione e innovazione. Per me il giornalismo non è solo una professione, è una missione!
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