Metropolis è, come tutti i poemi che si rispettino, generosissimo negli intenti, ricchissimo nei contenuti, straordinario nella forma. Tuttavia, come i grandi poemi, pecca a volte di un po’ troppa ingenuità, dando vita a episodi divaganti e un prolissi. Questo fa sì che nel film si alternino momenti indimenticabili, veri e propri lampi di genio, e parti invece anonime e superflue, che lo rallentano ostacolandone lo sviluppo.
Detto ciò, stiamo comunque parlando di un capolavoro epocale, capostipite di un genere – quello fantascientifico – che gli deve ancora molto in termini di qualità e pregnanza; una pietra miliare che segna certamente un passo avanti per il cinema, sia a livello tecnico – vedi l’uso degli effetti speciali – che espressivo.
Se la pellicola può inserirsi a pieno titolo nell’espressionismo cinematografico tedesco, è anche vero che il regista ha saputo creare da parte sua un qualcosa di assolutamente originale, difficilmente catalogabile.
L’attività frenetica delle macchine: rendimento, funzionamento, monitoraggio
Il film ha inizio con lo spuntare del giorno sulla città di Metropolis. Mentre il sole lambisce le cime più alte dei grattacieli, la vita riprende a scorrere nei palazzi e lungo le strade sospese nel vuoto. A un certo punto, con effetto di dissolvenza, l’immagine sfuma per lasciar posto alle vere protagoniste di questo agglomerato urbano del futuro: le macchine.
Ruote dentate, stantuffi, pulegge, aste metalliche: tutto si muove alla perfezione, in un’attività frenetica che non conosce sosta. Dal loro rendimento dipende il benessere della città; il loro funzionamento deve essere continuamente assicurato attraverso un monitoraggio costante. L’effetto di velocità e dinamismo è ulteriormente suggerito dallo scorrere orizzontale di alcuni fasci di luce, che si succedono in sovrimpressione: una tecnica questa che rimanda in qualche modo alla pittura futurista.
Il tempo come ingranaggio freddo e inesorabile
All’improvviso, all’immagine delle macchine si sovrappone il quadrante di un grande orologio: sta per segnare la mezzanotte, l’ora del cambio turno degli operai. L’accostamento orologio-macchine non è affatto casuale: il tempo stesso, entità fluida e discontinua, viene ricondotto allo status di ingranaggio, freddo e inesorabile.
Operai al lavoro
Ed ecco quindi, finalmente, l’impressionante sequenza degli operai che si recano al lavoro. Li vediamo, in un sola inquadratura, fermi immobili in due file: quelli a destra, di spalle, mentre attendono di entrare; quelli a sinistra, più lontani, mentre aspettano di uscire da dietro le grate di un cancello.
Quando il cancello si solleva, la cinepresa è in posizione leggermente defilata. Otteniamo così un’inquadratura ancora più profonda e quindi più ricca e completa. Come ubbidendo a un comando silenzioso, le due file si muovono in direzioni opposte. Tutti quegli uomini hanno lo stesso passo strascicato, simile a una marcia grottesca; indossano gli stessi vestiti; si muovono tutti alla stessa maniera, ondeggiando come sonnambuli; non sono né felici né tristi; camminano a testa bassa, come una mandria addomesticata. I loro volti non sono distinguibili, perché troppo lontani o girati di spalle.
È la rappresentazione dell’anonimato più totale: sono uomini disumanizzati, privati della ragione e della volontà; macchine tra le macchine, destinati a diventare ingranaggi loro stessi. Quando poi, pigiati sopra un ascensore, verranno calati sottoterra, nelle viscere della città, comincerà per loro la fatica quotidiana, in un Inferno di neri vapori e di acciaio.
La critica spietata alla civiltà delle macchine
Non poteva esserci una critica più spietata e diretta a questa nostra civiltà delle macchine, né una previsione più allarmante sugli esiti del processo produttivo intrapreso dalla civiltà occidentale, e con essa ormai da quasi tutto il mondo. D’altra parte, però, questa critica così radicale si attenua progressivamente durante il proseguimento del film.
L’elemento religioso prima, quindi un moralismo un po’ sciatto e sbrigativo poi, spostano i termini del conflitto su di un piano non più umano ma escatologico e trascendente, per arrivare infine a una soluzione di compromesso che non accontenta proprio nessuno. Gli operai, cioè, dovranno perseverare in quella vita da schiavi per il bene di tutti, mentre i ricchi useranno nei loro confronti una maggiore cortesia.
È davvero ben poco, dopo le grandi premesse iniziali. Ma tant’è, l’abbiamo detto: gli alti e bassi di Metropolis sono come gli episodi di un poema, dove non sempre l’ispirazione è continua. Godiamoci quelli migliori, dunque, e risfogliamo questa grande antologia.