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Sussurri e grida: il colore rosso nella fotografia di Sven Nykvist

Less is more, ma solo per la naturalezza e l’essenzialità che traspaiono dalla fotografia di Sven Nykvist, in netto contrasto con la scenografia che ha reso celebre Sussurri e grida di Ingmar Bergman.

Non fosse solo per il senso di soffocamento che fuoriesce dalla storia e si riversa sull’andamento pesante e lento del ritmo generale – come a voler mettere in contatto lo spettatore con l’oppressione che vivono i protagonisti – il capolavoro del 1972 si lascia ricordare anche per l’immagine sensoriale che l’ambientazione attiva al di qua dello schermo: una percezione fisica di ciò che l’occhio vede e che a Nykvist è valsa il Premio Oscar® nel 1974.

Il colore rosso, elemento fondante di Sussurri e grida

In una sontuosa villa svedese, Agnese, affetta da una malattia incurabile, viene assistita dalle sorelle Maria e Karin, e da Anna, la domestica. I forti contrasti emotivi che nascono tra Agnese e le sue sorelle sono il frutto dell’incomunicabilità delle stesse verso un dolore che non appartiene a loro, concentrate invece sul malessere che risiede in se stesse.

Solo Anna, che si è misurata con la sofferenza per la perdita della figlia, riesce a incanalare quel dolore alleviandolo. È un rapporto di compensazione quello che si instaura tra le due donne. Da un lato Agnese si sostituisce alla figlia perduta di Anna, dall’altra la domestica ha quella luce materna che è sempre stata per lei troppo flebile.

In uno scenario tanto angusto quanto delicato, un elemento fa da collante assoluto, immagazzinando tutto per poi scaraventarlo verso lo spettatore in modo decisamente disturbante: il colore rosso. Vivo, carminio, simbolo del dolore che pervade continuamente la scena, lo troviamo in modo ridondante negli arredi, nella tappezzeria e in dettagli più o meno rilevanti. Il diario su cui Agnese scrive è rosso; rosso è il cuscino di una sedia in rattan sulla quale è seduta la madre delle tre sorelle mentre la voce fuoricampo di Agnese ne rievoca il ricordo.

Il filo di Arianna per uscire dal labirinto del dolore

Quello che si crea è un legame indissolubile tra il dolore e i personaggi che non sembrano poter essere abbandonati in alcun modo da esso poiché sempre presente anche quando apparentemente più silente.

È infatti come una sorta di “filo di Arianna”, un filo rosso che accompagna lo spettatore nel corso di tutta la narrazione, a volte in modo pervasivo, angosciante per l’abuso che ne viene fatto e a volte più velato ma comunque presente, come a voler tenere vivo lo stato di irrequietezza generato nello spettatore, a volerlo rendere conscio di un disagio che non lo abbandonerà anche quando più calibrato, più dosato, perché comunque onnipresente.

Secondo il mito greco, Teseo raggiunse l’uscita del labirinto di Minosse servendosi del filo che Arianna gli aveva donato, e il caso vuole che quel filo, come narra la leggenda, fosse proprio rosso. È simbolo della necessità di trovare uno strumento per uscire da una situazione complicata. E così vediamo Karin e Maria, alla ricerca di uno mezzo per scappare dalla reale percezione del dolore della sorella, per sfuggire loro stesse alle loro vite.

Karin cerca di evadere dalla rabbia repressa verso la propria esistenza, la frustrazione originata dalla mancanza d’amore da parte della madre ma anche del marito. In un flashback in cui i due sono seduti a tavola, ella per sbaglio rompe un bicchiere con cui poi, durante un delirante atto di masochismo, si provocherà una ferita. Di nuovo il ritorno del rosso, questa volta del sangue.

Maria non ha cognizione del mondo perché profondamente immatura. D’altra parte Agnese, in cerca di pace dal dolore delle proprie sofferenze, trova in Anna il filo conduttore verso il sollievo e l’amorevolezza, di cui sono invece incapaci le sorelle, e che l’accoglierà in grembo alla morte, in un’immagine che rimanda alla similitudine con la Pietà di Michelangelo, trovando la quiete.

Contrasti e contrapposizioni

Infuria un gioco di contrasti tra tre colori principali: l’uso smodato del rosso oltre che per gli arredi e l’assetto generale della scenografia, è anche presente nelle dissolvenze di montaggio, nella fotografia, frutto di luce naturale, ma con il giusto grado di saturazione che ne emana un tono rossastro, la stagione autunnale in cui si svolge la vicenda e pertanto caratterizzata da colori ramati, si contrappongono il nero, a simboleggiare il lutto, e infine il bianco, simbolo della purezza e dell’innocenza.

Agnese è morta. La sua voce fuoricampo narra quello che Anna legge: un ricordo scritto nel suo diario. L’autunno è alle porte, Maria e Karin sono andate a far visita ad Agnese. Ella ha la percezione di essere tornata indietro nel tempo a quando erano bambine, di stare meglio, di non avere più dolore e di percepire l’amore e il calore intorno a sé, di volersi aggrappare a questa sensazione perché “qualunque cosa accada, questa è la felicità”.

Ed ecco che la sedia in rattan con cuscino rosso su cui è seduta la madre, quasi a volerlo schiacciare, sopprimere, il diario rosso custodito da Agnese, ma poi tenuto nascosto da Anna, si contrappongono al ricordo dell’uscita in giardino con le sorelle quando, in una luce nuova, si ha l’impressione che quel dolore a lungo soffocato si disveli, finché a spezzare la naturalezza di questa luce – che fa da sfondo alle parole di Agnese – torna irruento il rosso, per rivelare allo spettatore che il vero dolore è stata la mancanza d’amore.

Marta Apostolico

Marta, classe 1994. Ho studiato Lettere e Filosofia alla Sapienza Università di Roma e ampliato le mie conoscenze nel panorama dell'industria cinematografica seguendo un corso in Linguaggi e industria audiovisiva fra TV e streaming e un corso in Semiotica dei media e delle pubblicità, erogati dall'Università Cattolica del Sacro Cuore.
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