Un solitario, un uomo burbero, un’anima tormentata dal passato. Il capitano Quint interpretato da Robert Shaw nell’indimenticabile cult Lo squalo di Spielberg – trasposizione dell’omonimo romanzo scritto da Peter Benchley – incarna questi tre concetti e li esprime magistralmente all’interno della pellicola.
La sua presenza scenica non è poi così massiccia ma riempie comunque di significanza ogni secondo. Fa il suo ingresso quasi in sordina, alla riunione per catturare il temutissimo squalo che terrorizza la popolazione di Amity, ma è già qui che abbiamo il tratto caratteristico del personaggio, la volontà di essere eroe, non per essere acclamato, ma per vincere definitivamente i propri fantasmi.
Sì, perché l’esperto pescatore al timone dell’Orca (nome dell’unico animale marino in grado di opporsi alla ferocia del carcharodon carcharias) rappresenta la quintessenza del legame quasi ossessivo con un trascorso traumatico. Vuole catturare da solo lo squalo, ne parla con più consapevolezza di chiunque altro nella stanza, e all’inizio può sembrare un semplice lupo di mare.
Quando davvero si entra nel vivo dell’azione e finalmente Martin Brody decide di prendere parte insieme a lui a una spedizione mortale alla ricerca della famigerata creatura, vediamo un Quint d’improvviso incupito e corrucciato. Rassegnato, combatte il disagio con una battuta sconcia all’atto della partenza e in presenza di Ellen, la moglie di Brody:
“Qui giace il corpo di Mary Succhiei, morta all’età di anni 106. Fino a 15 anni rimase illibata, ma da quell’ora in poi non si era più fermata!“
Il trauma di Quint e il desiderio di vendetta
Il contrasto fra rude umorismo e pathos interiore lo si può notare anche nei dialoghi che intrattiene con i due suoi compagni di viaggio (l’altro è il biologo marino Matthew Hooper). Racconta solo di esperienze che si è lasciato alle spalle e le pone sempre a confronto con le varianti contemporanee trovando ovviamente queste ultime deludenti e poco edificanti.
Il trauma di Quint, che verrà fuori nel drammatico racconto sulla tragedia dell’Indianapolis, è così radicato che lo porta a rimuginare continuamente, dimostrando di non aver superato lo shock di quel terribile naufragio.
“Non mi metterò mai più un salvagente addosso!“
La ricerca di Quint si può benissimo paragonare all’ossessione di Achab per Moby Dick. Nutre un desiderio di vendetta, vuole sfruttare la seconda occasione.
Rivive in maniera vivida i momenti di tensione in cui lo squalo accerchia la sua preda, e anche se adesso il capitano è al riparo sulla barca, la vibrazione di voler avere finalmente la meglio per porre un punto definitivo è estremamente palpabile. In un momento di giocosa libertà, dopo qualche bicchiere alcolico, in una scena omocentrica in cui il gruppo dei tre si lascia andare a una conoscenza più profonda vista la serietà della missione che li lega, Quint mostra tutte le sue cicatrici, e non può dissimulare quella che lo tormenta ancora.
È un cane bastonato che si lecca le ferite. Forse per un uomo che vive il mare, mettere a nudo il proprio vissuto è quasi un fattore intrinseco. Si vive solo di quello dopotutto, di narrazioni, aneddoti che allietano e riempiono il viaggio successivo, ma si capisce che le cose non sono così semplici per Quint quando questi, dopo gli ultimi eventi che hanno portato la spedizione terribilmente vicino al temuto squalo bianco, distrugge la radio, unico contatto con la terra che Brody stava cercando di stabilire.
È arrivato fin lì, ha la bestia sotto i suoi piedi, ha il passato spalancato e pronto a essere attraversato, rivissuto nuovamente, non più un rimuginare ossessivo, non più un deterrente per la vita presente, ma finalmente l’occasione di rivalsa, di riscrittura, e se non sarà lui a mettere il punto alla sua storia non sarà nessun altro.
Un personaggio da approfondire
Anche a livello di trama, la parabola di Quint è incompleta. Ci viene presentato come figura un po’ folkloristica dell’isola. Ha una storia, e quei pochi momenti in scena non bastano per approfondirla. Anche caratterialmente è tutto lasciato all’intuizione. Viene reso come persona irascibile e quasi intrattabile ma solo il sottinteso e il non detto rendono evidente il motivo.
Vivere nel passato rende l’uomo solo, non ci si può concentrare sui giorni che scorrono davanti se l’unico pensiero è rivolto a quelli già vissuti. Il cuore e l’anima si rimpiccioliscono finché le uniche forze che ti restano vengono canalizzate sulla speranza di poter dare un finale diverso e lenire il tormento.
Tutto questo nel film viene mostrato attraverso i comportamenti scostanti e i dialoghi mozzati di Quint ai suoi uomini, lo sguardo di fuoco che incrocia con la bestia. Ritorna quindi il tema della solitudine: è personale questa sua missione, anche se sulla barca sono in tre. Iconico forse l’epilogo pensato per Quint. Una metafora che gli si adatta drammaticamente e… inevitabilmente.
Le ossessioni uccidono, i segni logorano. Non ha avuto la sua rivalsa, ma è stato divorato dal suo stesso trauma, dal suo desiderio di riportare a galla ciò che invece doveva essere lasciato andare, superato e trasformato.
È sua l’unica morte eroica cui assistiamo, ma anche questa passa in secondo piano, troppo poco considerata anche dal resto dei compagni, che alla fine portano a casa la vittoria. Come se Quint fosse sempre stato solo un fantasma, una presenza evanescente di ciò che la paura può fare all’uomo che si aggrappa disperato a ciò che è stato.
Per fortuna, gli sono stati dedicati due romanzi: Quint di Robert Lautner e The Book of Quint di Ryan Dacko.