In una recensione in cui si parlava di Quarto Potere (Citizen Kane il titolo originale), si faceva come spesso succede un parallelo con 8½ di Federico Fellini – anche se più che a quest’ultimo, le tematiche del film si avvicinano a quelle de La Dolce Vita.
Infatti, mentre nel primo caso si parla della gestazione dell’opera d’arte, di un io creatore, nel secondo si discute di un sogno imperfetto chiamato realtà, in cui il protagonista vive un puzzle che non torna. Nel capolavoro di Orson Welles sussiste un soggetto in terza persona e per giunta passato, in 8½ un “io” in fieri. Ma questo, francamente, è un paragone per quelli che, come diceva Calvino, devono cercare corrispondenze in tutto.
Un nuovo modo di fare cinema
Tornando a Citizen Kane, alcuni dicono a buon diritto che il pregio principale del film non vada individuato nei contenuti, bensì nell’uso – e quindi nella creazione – di un nuovo modo di fare cinema, di parlare al pubblico. Nella Settima Arte più che mai se non c’è pubblico, non c’è opera: l’arte si dispiega solo quando scorre davanti all’occhio umano.
Il regista – giovanissimo e ben cosciente del suo genio – deve riuscire per la prima volta nella storia delle immagini in movimento a mostrare l’interiorità del personaggio. La storia che il film ci racconta è la storia dell’instancabile ricerca della risposta alla domanda: Who am I? (Chi sono io?).
L’uso del piano sequenza
Per fare questo, per cercare cioè di rispondere a questo interrogativo – anzi, per mostrarci l’interrogativo stesso – Welles sfonda le barriere del cinema classico attraverso l’uso del piano sequenza. L’inquadratura raggiunge l’intera profondità della scena, comprendendo tutto ciò che vi è rinchiuso.
Ora è doveroso però fare una precisazione: il merito della profondità e del piano sequenza, dei suoi movimenti che includono ed escludono, non è quello di donare a ciascun elemento un significato che superi il dato oggettivo. Il sistema dei segni esisteva ed era ben saldo già nel vecchio cinema. Fin dai primissimi esperimenti, se vogliamo (esplicito o meno, consapevole o meno).
La vera novità, che porta Welles ad attraversare la nuova costruzione dell’immagine nello spazio-tempo, è far sì che l’immagine accolga al suo interno diversi dati, chiedendo così allo spettatore di scegliere e discernere, di fare attenzione. L’immagine ci prega di compiere un piccolo sforzo per capire. Non solo di vedere, ma di guardare, di guardarla.
Ed è questa l’intima ragione per cui si dice che solo attraverso il piano sequenza possiamo rispondere alla domanda: Who was he? Welles non ci fa volutamente arrivare alla risposta. Ci catapulta invece in mezzo alla selva di oggetti appartenuti a Kane e così ci troviamo in mezzo a quello che era il tutto prima che operasse la scelta.
La vera anima di Quarto Potere
Il nostro uomo era un accumulatore. Visti dall’alto, i suoi oggetti sembrano i grattacieli di New York, formano labirinti in cui perdersi sotto la loro stessa ombra. Eppure, proprio come il puzzle in pezzi che a un certo punto viene inquadrato, questi frammenti non creano l’intero. Mancherà eternamente un pezzo, un unico simbolo – precursore della cassa contenente l’Arca dell’Alleanza alla fine di Indiana Jones e i predatori dell’Arca perduta.
La risposta a tutte le nostre domande, la soluzione al mistero viene dimenticata nella moltitudine di un deposito, paradossalmente bruciata, perduta, dispersa. Chi era dunque Charles Foster Kane? Non si saprà mai. E forse non esiste nemmeno una risposta, ma soltanto una ricerca ed è forse proprio questa l’anima di “Quarto Potere”.