Dove vederlo: Al cinema
Titolo originale: Grand Tour
Regia: Miguel Gomes
Sceneggiatura: Telmo Churro, Maureen Fazendeiro, Miguel Gomes, Mariana Ricardo
Cast: Gonçalo Waddington, Crista Alfaiate, Cláudio da Silva, Lang Khê Tran
Produzione: Portogallo, Italia, Francia, Germania, Giappone, Cina
Genere: Drammatico
Durata: 128 minuti
Festival di Cannes: Miguel Gomes vincitore come miglior regista
Photo credits: © 2024 Uma Pedra No Sapato, Vivo Film, Shellac Sud, Cinema Defacto
Poster e foto da: Press Lucky Red
Trama
1918. Edward (Gonçalo Waddington), funzionario inglese di stanza a Rangoon in Birmania, è in procinto di convolare a nozze con la fidanzata Molly (Crista Alfaiate), che per l’occasione è in arrivo da Londra. Tuttavia, preso dal panico, Edward s’imbarca all’ultimo minuto per Singapore, che sarà la prima tappa di un’avventurosa fuga in giro per l’Asia orientale, tra incidenti ferroviari, ricevimenti principeschi e, soprattutto, incontri con uomini e donne straordinari.
Recensione
Grand Tour è un film eccezionale, che, partendo da una vicenda piuttosto semplice, si muove su molteplici livelli riuscendo a essere – oltre che un’entusiasmante fuga dalla realtà – una riflessione molto profonda: sui rapporti umani, sulla paura, sul viaggio, sul cinema stesso e forse, se si è abbastanza attenti, anche sul senso della vita. Il regista Miguel Gomes è un maestro che tiene tutto in perfetto equilibrio senza mai perdere il focus complessivo.
A guidare la nostra “discesa” attraverso i vari piani di significato può essere il titolo stesso. Quanti “Grand tour” convivono nella pellicola? Innanzitutto quello di Edward, il più ovvio. La rocambolesca fuga del protagonista sembra uscita dalla penna di Somerset Maugham, esplicita fonte d’ispirazione. E se il lettore degli anni ’30 del secolo scorso era senz’altro avvinto dal fascino esotico e quasi favolistico dei lontani luoghi evocati da Maugham, lo spettatore del 2024 non può che restare incollato alla poltrona, ammaliato dallo splendido bianco e nero che immortala il tragitto di Edward.
Ma Gomes, vincitore al Festival di Cannes per la miglior regia, non si limita a seguire didascalicamente le peripezie del personaggio. Gioca con noi, combinando modalità di ripresa moderne a tecniche tipiche del muto, come l’effetto iride sul telegramma in cui Molly comunica il suo imminente arrivo. Anche lo stesso B/N, che conferisce alla vicenda una dimensione di distanza, di cinema puro che aumenta il sense of wonder, lascia talvolta spazio a brevi sequenze a colori, nei momenti in cui Edward (e più tardi Molly) è immerso in sogni o fantasticherie a occhi aperti.
Proprio questo amalgama di passato e presente, di finzione e realtà, è l’elemento di spicco. Quando i narratori e le narratrici che si avvicendano nel film, secondo il luogo in cui Edward si trova al momento, ne descrivono gli spostamenti, agli spettatori sono mostrate immagini odierne, quelle girate dalla troupe nei medesimi luoghi toccati, in un grand tour reale e parallelo a quello immaginato.
Si crea così un effetto di discrepanza tra ciò che si dice Edward abbia visto e ciò che vediamo noi. Ma la meraviglia che proviamo nel perderci nel caos di Bangkok o nei locali di Shanghai, nell’assistere a quelle scene di vita – di certo tanto diverse rispetto al secolo scorso ma ancora tanto “estranee” agli occidentali – è la stessa che deve aver provato Edward. D’altronde, l’Oriente è un mistero per chi non ci vive: evidentemente, nonostante la globalizzazione, questa frase è vera tanto oggi quanto cent’anni fa.
E allora è proprio il nostro l’ultimo grand tour, forse il più vicino di tutti al vero significato dell’espressione. Il grand tour di Edward, fatto per necessità e non per piacere, è caratterizzato dalla paura e dall’ansia, che gli impediscono di godere le gioie dei meravigliosi luoghi che attraversa.
È vero che entrambi, lo spettatore ed Edward, fuggono dalla realtà: ma mentre il primo viene interamente immerso in un’altra realtà, quella fittizia del film, Edward resta tagliato a metà, in una specie di limbo, in cui sa da cosa scappa ma non perché, né dove vuole andare, come il protagonista di “Samarcanda”. La “M” con cui Molly si firma nei suoi puntuali telegrammi potrebbe richiamare l’onnipresente Morte della canzone di Roberto Vecchioni.
La ragazza ha fede cieca nel fidanzato, nonostante le occorrenze facciano pensare al contrario, e con questo punto fermo nella sua vita riesce a vivere con leggerezza, ma pienamente, i luoghi che tocca nel suo inseguimento.
Forse Grand Tour vuole essere un invito per tutti noi a trovare un punto fermo, così da riuscire a vivere appieno e a dare senso alla vita. E chissà che il finale, molto metacinematografico, non voglia suggerirci che il cinema stesso potrebbe essere quel punto fermo, se noi accettassimo di prestare fede alle sue menzogne.
Curiosità
A Cannes il film è stato inoltre candidato alla Palma d’Oro.