La tradizione culinaria piemontese è in Italia fra le più ricche di storia, spesso ancorata alle regali consuetudini della corte sabauda. Esiste però una forte permeabilità popolare non nettamente slegata dal gusto dispensato nei salotti aristocratici. Un tessuto regionale, dunque, molto coeso e altresì variegato dal punto di vista enogastronomico.
Nell’ambito della pasticceria, è inevitabile parlare di creazioni eccezionali come il bonèt, che oggi troviamo servito in quasi tutti i ristoranti del Piemonte ma in versioni differenti.
Il bonèt (o bùnet) si presenta come un dolce al cucchiaio le cui origini si rilevano addirittura nel tardo Medioevo, intorno al XIII secolo d.C. Il curioso nome si presta a molteplici interpretazioni. Rimanderebbe, secondo alcune ipotesi, allo stampo di cottura in rame (rotondo ma sostituibile con il classico stampo rettangolare da plum-cake) chiamato bonèt ëd cusin-a, ovverosia “cappello da cucina”.
Limitandoci invece alla sola traduzione di “cappello”, rievochiamo una simpatica memoria del passato. Per convincere i figli piccoli a mangiare e finire l’intero contenuto del piatto fondo, i genitori promettevano una porzione di dolce, servito sulla base del piatto stesso che veniva prima ribaltato per evitare di sporcare un’altra stoviglia.
Altro aneddoto vorrebbe connettere il bonèt alla sua funzione di dessert, l’ultima portata a chiudere il pasto prima di alzarsi da tavola. Ebbene, anche il cappello (anche berretto o cappuccio, dal francese bonnet) era indossato all’ultimo per uscire.
È pur vero che tale ipotesi ha ben poco fondamento e sembrerebbe smentita dal Vocabolario piemontese del medico Maurizio Pipino (1783): “Bonèt: berretta. Dicesi pure di vaso di rame a foggia di berretta a uso di pasticceria“. Il bonèt era un copricapo indossato dagli anziani, dai contadini e dagli operai, non da chiunque.
Evoluzione della ricetta dal Duecento a oggi
La ricetta arcaica duecentesca prevedeva l’uso di soli quattro ingredienti: uova, latte, amaretti e zucchero. Il bonet piemontese originale – di colore bianco – aveva e ha tuttora la consistenza soffice e invitante di un budino (sullo stile del crème caramel), e rimaneva così morbido per il fatto che un tempo si cuoceva a forno spento ma ancora caldo. Quest’ultimo, infatti, si accendeva soltanto per preparare il pane.
Oggi la principale modalità di cottura prevede il posizionamento dello stampo in una teglia riempita di acqua calda e messa in forno per ca. un’ora a bassa temperatura. In alternativa è possibile ricorrere alla cottura a bagnomaria, immergendo lo stampo in un tegame pieno d’acqua da mettere sul fuoco purché coperto per mantenere il calore una ventina di minuti.
Le varianti oggi si sprecano e dipendono dal credo di chi lo prepara. Intanto rispetto ad alcuni secoli fa, il bonèt ha cambiato colore diventando marrone per via dell’impiego del cacao, giunto in Europa solo agli albori del ‘500. La ricetta può comprendere il caffè oppure il rum, dato che lo si abbinava a distillati o liquori a concludere il pranzo o la cena. Le nonne non utilizzavano il rum ma il Fernet Branca per aiutare la digestione. Contemplato anche il cognac, ma molto più raro.
Secondo il ricettario Polizia e cucina redatto a inizio ‘800 e curato dall’Ordine dei Cavalieri del Tartufo e dei vini di Alba per una riedizione torinese nel 1984, la preparazione del bonèt vuole 8 dl di latte (indicate con l’unità di misura della libbra, quindi due in totale), sei tuorli d’uovo, sei cucchiai di zucchero, cioccolato fuso, mandorla amara e caffè. Maestri culinari come Francesco Chapusot, Giovanni Vialardi e Pellegrino Artusi hanno in qualche maniera raffinato la ricetta dando il proprio tocco personale.
Tra le proposte più moderne figura il Bonèt Langarolo che, insieme al cacao amaro setacciato, esige qualche scaglia di cioccolato fondente come guarnizione in aggiunta al tipico amaretto intero. Nelle Langhe lo si valorizza con la nocciola tonda gentile trilobata, eccellenza del territorio.
Il bonèt ha ottenuto il riconoscimento di P.A.T. – Prodotto Agroalimentare Tradizionale (sezione Paste fresche e prodotti di panetteria, pasticceria, biscotteria e confetteria) dal Ministero dell’Agricoltura, della Sovranità e delle Foreste. L’elenco nazionale conta oltre 5.000 P.A.T., di cui 343 solo in Piemonte come risulta dall’aggiornamento del 2024.