Luoghi comuni e stereotipi vogliono che quello di Carmagnola sia il migliore reperibile nel Nord Italia. Il fatto che sia stato riconosciuto illo tempore come prodotto agroalimentare tradizionale italiano dal Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali non deve far dimenticare un’illustre bontà similare, il Peperone di Voghera.
Fino agli anni ’50 assai diffusa nell’area fra il Pavese e l’Alessandrino, la sua coltivazione è stata tremendamente ridotta a causa di una micosi, provocata da un eccessivo utilizzo degli stessi orti reo di aver esteso la malattia, un fungo molto aggressivo e nocivo per le radici delle piante.
Pensare che Voghera faceva da sede un tempo a un grande mercato ortofrutticolo dove il saporito peperone verde (conosciuto anche oltre confine, in special modo in Germania e negli Stati Uniti d’America) veniva smerciato, soprattutto per le sue qualità e un invidiabile digeribilità, atipica per una coltura siffatta, proverbialmente impegnativa da assimilare per l’organismo.
Il recupero del seme
Ci sono voluti ben 15 anni per recuperare il seme e permettere al Peperone di Voghera di fare ritorno sulla tavola tricolore, e questa volta con il prestigioso titolo di Presidio Slow Food. Si è, insomma, ritrovato un tesoro: “Abbiamo imparato la lezione” – afferma Andrea Olezza, referente dei sei produttori che aderiscono al Presidio – “Oggi non mettiamo mai il peperone nella stessa porzione di orto per almeno tre o quattro anni, rispettando il disciplinare di produzione che prevede rotazioni annuali.”
Il fusarium, patogeno colpevole del massacro orticolo, non è riuscito tuttavia a far sparire definitivamente la coltura grazie ad alcuni individui irriducibili: “Mio nonno si trasferì subito dopo il matrimonio a Corana, paese poco distante da Voghera, e in quella zona dal terreno sabbioso continuò a riprodurre il peperone” – racconta Olezza – “Pur essendo rimasto l’unico, ci ha sempre creduto riuscendo a trasmettere la sua passione e tracciare una nuova strada.”
Nel 2006 è partito il progetto di recupero e grazie alla collaborazione con l’Istituto tecnico agrario “Gallini” di Voghera, l’Istituto di Patologia Vegetale dell’Università di Milano e il Centro Ricerca Agraria di Montanaso Lombardo (Lodi), oggi il Peperone di Voghera è tornato a vivere e a impreziosire convivi prandiani e cene.
I suoi semi selezionati hanno attecchito nella porzione di pianura più sabbiosa e ricca di minerali, bagnata dal Po. Le piantine vengono messe a dimora a febbraio, poi trapiantate in campo o serra da inizio aprile a fine giugno. La raccolta (eseguita fino a quattro cicli) avviene manualmente tra luglio e novembre.
Come è fatto il Peperone di Voghera
Si tratta di un vero miracolo della natura, un prodotto quadrilobato (ma talvolta anche solo a tre coste) a forma cubica, la cui dimensione oscilla fra gli 8 e i 12 cm. Interessante il suo colore verde chiaro che, con la maturazione, declina nel giallo-arancio. Cosa incredibile, è buono già appena raccolto, di norma uno o due giorni prima che assuma il tipico colore giallognolo.
Per tradizione lo si conserva sottaceto, parimenti è ottimo da consumare crudo, in insalata o in pinzimonio, oppure per condire i risotti. Alcune famiglie lo mettono ancora sotto vinaccia, nelle damigiane, come vuole l’antica ricetta vogherese.
Facente parte anche dell’associazione di valorizzazione e tutela del prodotto, Olezza racconta il suo rapporto con il Peperone di Voghera:
“Il mio è un legame quasi morboso con questa varietà, che secondo me ha un gusto speciale rispetto agli altri peperoni più insipidi e acquosi.”
Elisa Nervetti, referente Slow Food del Presidio, specifica che:
“La Condotta Slow Food Oltrepò Pavese si è concentrata sul Peperone di Voghera per oltre un decennio, sia per ciò che concerne le ricerche sul fronte scientifico e storico sia per riuscire a coinvolgere nuovi produttori e promuovere il prodotto.”
Immagini: © Oliver Migliore per Slow Food