Il genuino forziere dei Presidi Slow Food si arricchisce di un nuovo tesoro. Nuovo in senso astratto, poiché il Cacio di Genazzano è un formaggio dalla storia pluricentenaria, le cui radici si rilevano nella cultura rurale in virtù del suo essere stato per lungo tempo una risorsa alimentare fondamentale per l’autosussistenza delle famiglie contadine del Lazio.
Già citato nel ‘600, questo prodotto è sempre stato soggetto a un consumo limitato, al di fuori del mercato collettivo e del commercio massivo, tanto quasi da scomparire. Quasi, se si considera che sulle prime pendici dei monti Prenestini alle porte di Roma due aziende agricole hanno mantenuto in vita la tradizione del Cacio di Genazzano continuando a produrlo.
Un pecorino a latte crudo
Si tratta in sintesi di un pecorino a latte crudo, latte cioè né pastorizzato né termizzato dopo la mungitura – quindi ricchissimo di nutrienti, vitamine, enzimi e fermenti lattici – e con la prerogativa di riuscire a rendere i formaggi degli effluvi di aromi e profumi erbaceo-floreali dati dalla sana alimentazione degli animali.
Il latte crudo si inserisce in una filiera arcaica che tiene fuori dalla sua esclusiva logica omologazione di sapori, fermenti industriali e standardizzazione della produzione casearia. Il lavoro dei pastori è connesso strettamente all’ecosistema, preservato attraverso pratiche green votate alla tutela della biodiversità del suolo.
La comunità di produttori sta attuando da un anno la conversione dei pascoli in prati stabili, un processo che richiederà altri quattro anni affinché la rigenerazione del manto erboso possa completarsi dando pieno valore al tessuto agro-alimentare.
Come si produce il Cacio di Genazzano
Il Cacio di Genazzano viene realizzato utilizzando il latte delle tre razze ovine contemplate dal disciplinare di produzione, ovverosia Comisana, Sarda e Massese insieme ai relativi incroci. Scaldato in un paiolo di rame stagnato fino a raggiungere la temperatura di 35-38 °C, si coagula con caglio animale. La tecnica tradizionale impone che la cagliata venga rotta tramite taglio a nocciola per il cacio fresco (un mese di stagionatura), taglio a chicco di mais per la versione stagionata almeno sei mesi.
“La differenza” – spiega il referente delle due aziende produttrici Luca D’Ottavi – “sta nella dimensione dei pezzi di cagliata, sicché più sono piccoli, minore sarà l’umidità all’interno, condizione ottimale per la lunga stagionatura. La cottura della pasta è la fase successiva allo spurgo del siero: si cuoce a 40 o 45 °C, secondo il livello di stagionatura desiderato. Seguono la salatura e il riposo.”
Questo formaggio aderisce pienamente alle evoluzioni del territorio di produzione, legandosi a ciò che mangiano gli ovini e al loro stato di salute stagione dopo stagione. Da oramai vent’anni le pecore hanno sostituito le vacche nella filiera corrente entro l’area dei comuni di Genazzano e Cave, entrambi compresi nella Città metropolitana di Roma.
Immagini: © Oliver Migliore