Titolo originale: El Hoyo
Regia: Galder Gaztelu-Urrutia
Sceneggiatura: David Desola, Pedro Rivero
Cast: Iván Massagué, Zorion Eguileor, Antonia San Juan
Musiche: Aránzazu Calleja
Produzione: Spagna 2019
Genere: Thriller
Durata: 94 minuti
Regia:
Interpretazione:
Sceneggiatura:
Musica:
Giudizio:
Trama
Goreng (Ivan Massagué) è rinchiuso in una prigione multilevel molto particolare, dove chi risiede ai piani alti beneficia di alcuni privilegi.
Recensione
Gli uomini sono voraci e il mondo è ingiusto. In fondo alla nostra mente tutti ne siamo consapevoli. “È ovvio”, direbbe uno dei personaggi dell’ultimo film del regista spagnolo Galder Gaztelu-Urrutia. L’ovvietà riesce però a essere ancora una volta sconcertante ne Il Buco.
La sua forza è la semplicità. Quale metafora più immediata della società del mondo moderno che una torre con molti piani, la fossa? Quanti piani precisamente non si sa, ma ogni volta che si crede di essere al livello infimo, è ancora possibile scendere.
Gli inquilini vivono in coppie, ogni mese a un livello diverso e la loro permanenza, in alto o in basso, si alterna come le fortune e le sfortune della vita. A collegarli tra loro soltanto un buco da cui si intravede lo strapiombo. Quando Goreng (Iván Massagué) si sveglia nella sua cella al piano 48, ha l’ingenuità di chi è appena arrivato. Si è lasciato imprigionare volontariamente per smettere di fumare.
Il suo piatto preferito sono le escargot à la bourguignonne e se tutti nella “fossa” scelgono come unico possesso lampade, pistole o coltelli, lui porta con sé il Don Chisciotte della Mancia. Ha l’aspetto di chi non riesce a resistere ai livelli bassi, mentre quando è in alto pensa troppo e salta.
Ben presto, però, si accorge che con chi sta sotto non bisogna parlare, mentre chi sta sopra non risponde mai. “È ovvio” gli ripete continuamente il suo anziano compagno Trimagasi (Zorion Eguileor). Se la piattaforma con il cibo scende, poi, bisogna affrettarsi a mangiare.
Il banchetto prelibato che viene imbandito al piano zero percorre ogni livello della torre. Dunque, chi capita ai livelli infimi, non ha possibilità di nutrirsi. Questo tuttavia l’amministrazione lo ignora. Galder Gaztelu-Urrutia ci guida in un viaggio tra la disillusione e le aberrazioni.
I compagni di prigionia del protagonista vogliono incarnare ciascuno un campione di umanità, o almeno un lato del nostro carattere: il pragmatico e crudele Trimagasi che crede però alle televendite; l’idealista Imoguiri (Antonia San Juan), malata terminale, ex funzionaria dell’amministrazione e desiderosa di riportare l’equità nella fossa con il suo bassotto Ramses II; Baharat (Emilio Buale Coka), che al sesto piano si permette di credere in Dio, ma successivamente è disposto ad accompagnare Goreng negli inferi difendendo strenuamente una panna cotta.
Vi è poi la sensuale e sanguinaria Mhiaru (Alexandra Masangkay), alla ricerca del proprio figlio per la torre, che ricompensa con la violenza e la gentilezza con la carne. Tra il piano 6 e il 333 si scoprono le parti di noi che tentiamo freudianamente di eliminare.
Dalla vecchiaia che sa essere spietata per continuare a occupare il proprio posto, alla consapevolezza che talvolta bisogna mangiare per non essere mangiati, che il potere ignora le nostre disgrazie e che la minaccia è più efficace della solidarietà spontanea.
Anche i colori cambiano man mano che si scende. I toni saturi delle inquadrature gremite di pietanze, imbrigliate nell’ordine ripetitivo di piatti e vassoi, degradano di livello in livello in una fotografia livida, quasi mortuaria. Allo stesso modo la tavola imbandita si svuota di cibo e si riempie di cocci. Soltanto la luce rossa della notte, dove tutti dormono e nessuno mangia, uniforma la torre.
Lo sguardo del regista spagnolo rimane per l’intera durata di questo percorso degli orrori permeato di un’ironia disincantata e un po’ benevola. Anche quando le espressioni di Goreng passano dalla speranza allo sgomento, sino alla cupa indifferenza, Gaztelu-Urrutia pare comprenderci. Anzi ci sorride e ci domanda “Voi come vi sareste comportati in quella situazione?”
Gli fa eco la colonna sonora che accompagna il ripetersi dei giorni identici nella “fossa”. Il Buco non manca però di tensione. Pur svolgendosi in uno scenario statico, l’azione e la quiete dell’attesa sono orchestrate in maniera efficace. Ciascuna sequenza oscilla tra il sollievo e il terrore, tra il disgusto e la rassegnazione.
I momenti più riusciti sono quelli in cui la metafora si fa più pura ed elimina totalmente la retorica, anche quando significa togliere con essa una parte della speranza. Probabilmente per questo motivo il regista spagnolo inciampa nel finale e nel suo messaggio salvifico.
A sua discolpa bisogna però ammettere la difficoltà di chiudere un film come Il Buco. Se l’epilogo fosse stato univoco, Gaztelu-Urrutia avrebbe avuto un merito ben superiore a quello cinematografico: avrebbe trovato la soluzione ai problemi della disuguaglianza sociale.
CINEFOCUS
La panna cotta, il dessert che sfida la fossa
Curiosità
Acquistato e diffuso da Netflix nel 2020, El Hoyo ha scalato immediatamente la classifica della piattaforma di Streaming.