Titolo originale: Jungfrukällan
Regia: Ingmar Bergman
Sceneggiatura: Ulla Isaksson
Cast: Max von Sydow, Birgitta Valberg, Birgitta Pettersson, Gunnel Lindblom
Musiche: Erik Nordgren
Produzione: Svezia 1960
Genere: Religioso
Durata: 89 minuti
Miglior film straniero
Menzione speciale al Festival di Cannes
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Giudizio:
Trama
Inviata dal padre Töre (Max von Sydow) e da sua madre Märeta (Birgitta Valberg) alla più vicina chiesa per deporre sotto la statua della Madonna i ceri della festa, la vergine Karin (Birgitta Pattersson) viene stuprata e uccisa nel bosco da tre pastori i quali, datisi alla fuga, trovano riparo proprio dai genitori della vittima, ignari del destino della figlia. Uno degli ospiti commette un fatale errore, tentando di vendere a Märeta la pregiata veste indossata dalla ragazza.
In preda alla disperazione per il tremendo lutto e reso edotto dalla serva Ingeri (Gunnel Lindblom), impotente testimone dell’omicidio, Töre attua la propria vendetta pugnalando a morte i tre assassini, senza risparmiare neanche il più giovane, complice non esecutore della violenza. In cerca del corpo di Karin, lo trova riverso nel cuore della selva dove, poco dopo, inizia a sgorgare una limpida sorgente d’acqua.
Recensione
Nel mezzo di una filmografia già segnata dai monumentali successi di Monica e il desiderio, Il settimo sigillo e Il posto delle fragole, Ingmar Bergman torna a misurarsi con l’immanenza della morte e la ricaduta del dolore sui vivi. Lo fa attingendo in parte a Töres döttrar i Wänge, una leggenda svedese risalente al XIV secolo, semplificandola e condensandola in una storia che, raccontata in 89 minuti, si connota più come una parabola d’influenza mariana.
Un Medioevo dai topoi fiabeschi – non canonico eppur definito dal realismo classicista scandinavo – contestualizza gli usi e costumi più tradizionali di una famiglia rurale del ‘300, definendo i contorni di uno spaccato di vita sconvolto da un drammatico accadimento. La fontana della vergine porta a una tragica collisione i valori della purezza e dell’innocenza con la barbara grettezza dell’uomo selvaggio, involgarito da un passato di povertà e abbandono al punto da assecondare con facilità un rude istinto animale, in tal caso carnale, sessuale.
E il sesso, per vie trasversali, apre continue parentesi nell’opera sporcando ad esempio il dono della gravidanza e relegandolo a fortuito atto di ribellione promulgato ma al contempo subito da una negletta Ingeri, serva intemperante, iraconda e profondamente invidiosa di Karin.
Bergman insinua nella narrazione elementi magici come la predizione del vecchio eremita, non interferendo comunque con il testo principale, quel fondus religioso contraddistinto dalla devozione, dall’incomprensione del fedele nei confronti di Dio, dalla vendetta di stampo dichiaratamente biblico in riferimento al Vecchio Testamento e dal miracolo posto a finale annunciato del film.
La figura dominante e imponente dell’attore feticcio Max von Sydow e la sempre splendida fotografia di Sven Nykvist rendono la pellicola un’epica, iconografica visione che resta dentro, lacera prima e solleva poi, colpisce con un pugno e consola con una carezza, consumandosi lentamente fra gli aloni tiepidi di un’atmosfera mai sbilanciata nell’idillio ma nemmeno troppo incline alla consueta cupezza medievale.
Nella sua portentosa semplicità, una magnifica allegoria di esondante potenza emotiva.
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Curiosità
Nella leggenda ispiratrice, Tore uccide i tre briganti scoprendo successivamente che essi erano suoi figli avuti in passato e mai conosciuti.