Titolo originale: Lemale et ha’halal
Regia e sceneggiatura: Rama Burshtein
Cast: Hadas Yaron, Yiftach Klein, Irit Sheleg
Musiche: Yitzhak Azulay
Produzione: Israele 2012
Genere: Drammatico
Durata: 90 minuti
Coppa Volpi Miglior attrice protagonista ad Hadas Yaron
Regia:
Interpretazione:
Sceneggiatura:
Musica:
Giudizio:
Trama
Quando la sorella Esther muore dando alla luce il piccolo Mordehai, Shira (Hadas Yaron) è chiamata dai genitori a una scelta che potrebbe cambiare per sempre le sue ambizioni per il futuro: sposare il cognato vedovo Yohai (Yiftach Klein) o lasciarlo partire per il Belgio insieme al neonato che crescerebbe lontano dalla famiglia materna.
Recensione
Limitata dalle invisibili eppur evidenti pareti sociali che circoscrivono le dinamiche esistenziali della rigida comunità ebraica, la storia diretta con mano ferma dall’israeliana Rama Burshtein lascia inizialmente intendere un rapido dirottamento nella coercizione di un preciso quanto spietato costume religioso, in tal caso quello degli Ebrei ortodossi.
Eppure nello spazio di pochi minuti, la sensazione di fanatismo si dissolve e al suo posto prende inaspettatamente il sopravvento la libertà di una scelta da compiere con le sole forze di un’intimità intellettuale più che fisica.
Chiamata a tale scelta è una fanciulla il cui viaggio esplorativo nell’onere e nella consapevolezza diventa presto il viaggio dello spettatore all’interno di una famiglia il cui maggior pericolo conseguente a un grave lutto è la diaspora, considerata nel determinato caso la disgregazione di un nucleo familiare.
Shira smette di essere un’adolescente per indossare i panni di una sposa, o meglio di una vera e propria salvatrice di una stabilità a rischio dissoluzione. Intorno al suo pensiero e alla sua riflessione si muove un leviatano misoneista fatto di riti (su tutti lo shabbat che precede il Purim), congreghe, leadership rabbine e carismatiche serve del fato, componenti di una ridondante ma sorprendentemente permissiva escatologia, molto ben disposta nei confronti della donna, l’angelo del focolare che per gli Ebrei si rivela una sorta di femminino sacro.
In quest’ottica, la regista ci fa comprendere per immagini, silenzi e dialoghi mai gridati una prospettiva scevra di qualunque violenza ma sapientemente costruita sulla lacerazione intimista, l’eterno dubbio, la titubanza e lo smotamento interiore che detta i tempi della decisione in potenza. L’atto è una sorpresa o forse no, una conquista che anela felicità attraverso l’illusione di una vita nuova sulla quale, però, l’ombra del sacrificio e della dedizione incombe senza lasciare troppo spazio alla fantasia.
La Burshtein confeziona con insistenza un caleidoscopio di inquadrature dal significato sottile che rimarca l’incontro inevitabile fra dolore e disagio, timidezza ed esitazione, attesa e trepidazione, dicotomie/sintonie che si avvolgono e si svelano in un gioco di messa a fuoco entro una docile dimensione spaziale piuttosto asettica, che tende a isolarsi dal contesto per ritrovarsi al cedimento emozionale dei partecipanti al confronto.
La sposa promessa è inoltre una digressione che indaga il problema purtroppo universale dell’emarginazione, consapevole o inconsapevole che sia, pronto ciò nonostante a risolversi dimostrando come l’opera pregevole ed elitaria della Burshtein sia votata all’ottimismo e non all’autocommiserazione, alla speranza piuttosto che alla condanna personale.
Curiosità
La pellicola è stata candidata all’Oscar come miglior film straniero.
Immagini: © LUCKY RED S.r.l.