Titolo originale: Operation finale
Regia: Chris Weitz
Sceneggiatura: Matthew Orton
Cast: Oscar Isaac, Ben Kingsley, Mélanie Laurent
Musiche: Alexandre Desplat
Produzione: USA 2018
Genere: Storico
Durata: 120 minuti
Regia:
Interpretazione:
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Musica:
Giudizio:
Trama
Nel 1960 l’Intelligence israeliana individua in Argentina il nascondiglio del criminale di guerra nazista Adolf Eichmann (Ben Kingsley). Deciso a farlo processare, il Mossad invia in missione una squadra di agenti scelti di cui fa parte Peter Malkin (Oscar Isaac), che negli abominii commessi durante la Seconda Guerra Mondiale ha perso la giovane sorella e i tre nipoti. La ricerca del luogotenente diventa così un fatto personale.
Recensione
L’Olocausto continua a essere la fiamma nera che non si esaurisce, un argomento che non cesserà probabilmente mai di far discutere e lasciare tremendi strascichi. Per anni ha imperversato in Europa e nel mondo la caccia ai più sanguinari caporioni nazisti sfuggiti alla giustizia e uno di questi, Adolf Eichmann, è al centro delle indagini israeliane condotte nel film Operation finale, produzione di secondo livello affidata alle cure registiche di Chris Weitz.
Riposta la violenza visiva e psicologica che si era resa necessaria per Il debito, diretto nel 2010 da John Madden (in quel caso la preda del Mossad era Dieter Vogel), l’opera affronta il medesimo tema in una parentesi storica molto delicata sia dal punto di vista politico che etico, quel lasso di tempo che ha visto lo Stato di Israele tentare di risollevarsi conducendo una missione senza quartiere: perseguire i fuggiaschi tedeschi assicurando loro un processo successivo alla resa dei conti di Norimberga, il recupero delle ammissioni, l’estorsione di chiare confessioni e infine l’esecuzione, la parziale (ma impossibile) pulizia delle empietà.
Operation finale si focalizza assai lucidamente sulla figura di Eichmann, il freddo burocrate, l’aguzzino, l’architetto del genocidio, lo smistatore di ebrei, svelandone l’equivoca personalità, l’effimera compattezza. Portando la vicenda in Argentina, Weitz individua e ritrae il fenomeno manifestatosi con più fervore tra gli anni ’50 e gli anni ’60, quello di un pericoloso “proselitismo di ritorno”, l’ombra di un nuovo minaccioso odio antisemita pronto a ripropagarsi intaccando le precarie dinamiche di pace restaurata.
Il film è pragmatico e non si perde in flashback tragicamente descrittivi (Schindler’s List ha esposto la materia fin troppo bene e con fine sensibilità), preferendo delineare i tratti di un realismo interessato agli stati d’animo, agli obiettivi individuali di persone toccate da vicino dalla tragedia, ferite irrimediabilmente dai lutti subiti in conseguenza della soluzione finale.
Il protagonista Peter Melkin incarna quel coacervo di sentimenti covati in silenzio, in attesa di esser sradicati da un’ovazione di rabbia repressa che deve rimanere sopita per non esondare nel fallimento di un proposito, cioè quello di consegnare al collettivo giudizio un carnefice dell’umanità.
Nel tentativo di ristabilire un virtuale ordine nell’ecosistema storico, questa pellicola per lo meno fornisce un contributo alla causa che vuole la Settima Arte intermediaria fra la cronaca del passato e le valutazioni del presente.
Curiosità
Peter Malkin ha scritto un libro di memorie intitolato Eichmann in My Hands, utilizzato come fonte principale per la stesura della sceneggiatura del film.