Titolo originale: Room
Regia: Lenny Abrahamson
Sceneggiatura: Emma Donoghue
Cast: Brie Larson, Jacob Tremblay, Joan Allen
Musiche: Stephen Rennicks
Produzione: USA 2015
Genere: Drammatico
Durata: 118 minuti
Miglior attrice protagonista Brie Larson
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Giudizio:
Trama
Quando Jack (Jacob Tremblay) compie cinque anni, sua madre Joy (Brie Larson) gli svela che la realtà, così come lui la conosce, è un’invenzione. La sua visione del mondo è circoscritta alla stanza in cui è nato e cresciuto, al letto, l’armadio, poche sedie, un lavandino, una lampada e un lucernario da cui vede il “cosmo”. Fuori dalla stanza esistono alberi, animali, persone che Jack conosce solo attraverso la televisione.
È nel mondo “fuori dalla stanza” che Old Nick (Sean Bridgers) ha rapito la sua “Ma” sette anni prima, costringendola a vivere reclusa dentro un capanno. Dalla violenza subita, e ripetuta, è nato Jack. Dopo cinque anni dalla sua nascita, Joy decide che è arrivato il momento di fuggire e ritornare nel mondo.
Recensione
Lo script di Room è tratto dall’omonimo romanzo (la versione italiana si intitola Stanza, letto, armadio, specchio) del 2010 di Emma Donoghue, ispirato a sua volta al “Caso Fritzl”, avvenuto nel 1984 ad Amstetten, in Austria, e scoperto solo 24 anni dopo.
Si tratta di una sceneggiatura molto complessa, anche se semplice all’apparenza, che si muove su piani di lettura differenti. Sul piano fisico è la storia di una prigionia, su un piano più intimo riguarda i limiti che le convenzioni del mondo esterno e le relazioni tra gli esseri umani spesso interpongono tra noi e la libertà.
Jack nasce due volte, la prima cinque anni or sono, la seconda nel momento in cui è restituito al mondo. La stanza, a livello metaforico, è la trasposizione del grembo materno, ristretto, angusto, spesso castrante ma rassicurante, intimo.
Il contatto con l’esterno è traumatico, così come è traumatica la nascita di ogni bambino, di colpo investito da luce, colori, suoni, stimoli, sensazioni, pericoli. Joy, per anni, ha protetto il suo bambino ritardandone la nascita. All’improvviso avverte che non può più rimandare oltre e lo partorisce di nuovo, con la stessa violenza e la stessa potenza proprie della natura.
La pellicola è divisa perfettamente in due blocchi. Il primo è claustrofobico e poetico allo stesso tempo: è lo spazio del rapporto esclusivo tra madre e figlio, entrambi avvolti da una sfera di tenerezza e complicità. La fotografia contribuisce a rendere l’isolamento, muovendosi quasi esclusivamente su una scala di grigi.
Il passaggio oltre la porta, che permette di valicare il confine tra interno ed esterno – la nascita appunto – conduce quasi a un altro film, accecante di colori e sollecitazioni, molto più complesso, e dove i limiti sono completamente differenti.
La cinepresa offre bellissime inquadrature soggettive così, insieme a Jack, lo spettatore viene liberato, disorientato, travolto dallo stesso terremoto emotivo. I limiti, a questo punto, non sono più quelli fisici, ma non per questo più semplici da superare.
La difficoltà di accettare la verità – la stessa che costringe il padre di Joy a distogliere lo sguardo e a perdere la figlia una seconda volta – i giudizi, i pregiudizi, l’ipocrisia, il peso delle proprie decisioni, i rimpianti, i rimorsi. È solo adesso, a contatto con gli altri per la prima volta dopo la nascita di Jack, che Joy viene assalita dal dubbio di non essere stata una “Ma tanto buona”.
La forza, però, nasce proprio dalla relazione con gli altri e questa, insieme all’amore, salva ancora la vita di Joy, mentre il mondo torna a essere un posto meraviglioso in cui vivere. Fantastica l’interpretazione di Brie Larson, per la quale l’attrice ha conquistato la tanto ambita statuetta d’oro agli Academy Awards.
Ancor più stupefacente quella di Jacob Tremblay che, a soli dieci anni (otto durante le riprese del film), dimostra l’intensità di un attore di grande esperienza. C’è un’alchimia perfetta tra i due, grazie alla quale arriva forte il messaggio che l’amore è l’unica strada verso la libertà, o meglio, “love knows no boundaries”.
Curiosità
Lo scenografo del film, Ethan Tobman, voleva che nella scena finale ci fosse la neve. L’idea fu però accantonata per insufficienza di budget. Quando arrivò poi il momento di girare la scena, cominciò a nevicare veramente.