- Cinema e divano

Super Happy Forever – La ragazza dal cappello rosso

Dove vederlo: Al cinema

Titolo originale: Super Happy Forever

Regia: Kohei Igarashi

Sceneggiatura: Kochi Kubodera

Cast: Yoshinori Miyata, Hoang Nh Quynh, Hiroki Sano, Nairu Yamamoto

Produzione: Giappone, Francia 2024

Genere: Drammatico

Durata: 94 minuti

Trailer

Foto da Ufficio Stampa Di Milla & Macchiavelli

Trama

Sano (Hiroki Sano) è un uomo segnato dalla morte della moglie Nagi. Cinque anni prima, i due si erano incontrati sulle coste della penisola di Izu, dove l’amore era nato tra le onde e i silenzi di un resort affacciato sul mare. Spinto dal desiderio di ritrovare un frammento tangibile di quel passato – un semplice cappello rosso – Sano ritorna in quei luoghi, accompagnato dall’amico Miyata (Yoshinori Miyata).

Più che una ricerca concreta, il suo diventa un pellegrinaggio emotivo, un tentativo di catturare un’eco di ciò che non c’è più.

Recensione

Super Happy Forever – La ragazza dal cappello rosso è un film che non si limita a raccontare una storia d’amore perduta, ma la trasforma in una riflessione poetica sulla memoria, sull’assenza e sui luoghi che diventano custodi silenziosi delle nostre emozioni. Dopo l’esperienza di Takara – La notte che ho nuotato, Kohei Igarashi torna con un’opera che unisce l’intimità del cinema giapponese contemporaneo alla delicatezza visiva.

«Il fluire del fiume non cessa mai, e l’acqua non sta mai ferma. Sulla superficie degli stagni le bolle si rompono e si ricompongono, senza mai fermarsi. Sono come la gente che vive in questo mondo.»

Questi versi, tratti dal celebre poeta giapponese Kamo no Chōmei, maestro del pensiero buddhista, vengono evocati dai protagonisti in un momento di intimità e riposo. Sono parole che fungono da chiave interpretativa dell’intero film.

Super Happy Forever – La ragazza dal cappello rosso affronta un tema universale che tocca ogni essere umano: la perdita. Quando un dolore tanto viscerale ci travolge, nasce l’istinto inarrestabile di cercare chi non c’è più, di inseguirne l’ombra nei ricordi più freddi o nei luoghi che conservano una traccia della sua presenza. Anche in qualcosa di apparentemente banale, come un cappello rosso, può annidarsi l’intero peso dell’assenza.

La regia di Kohei Igarashi sceglie una distanza quasi ascetica. Molte scene mostrano i personaggi di spalle, in particolare Sano: un gesto stilistico che sembra alludere al peso invisibile che grava su di lui, il dolore che porta dietro, come un fardello. Le inquadrature, volutamente statiche e impersonali, restituiscono la sensazione di solitudine, di rimpianto, di una ferita che non si rimargina. Ma ciò che colpisce è che questa tristezza non viene mai gridata. È presente, sì, ma sospesa nei silenzi, negli sguardi, in dialoghi misurati e calibrati con cura, sempre essenziali, mai ridondanti.

La quotidianità entra in scena con naturalezza: conversazioni ordinarie, qualche ironia fredda, gesti semplici che, proprio nella loro normalità, fanno emergere con più forza l’assenza. Persino la fotografia, luminosa e soleggiata, sembra contraddire il dramma interiore, quasi a suggerire che la perdita, per quanto devastante, diventa parte della vita stessa.

Se l’inizio della narrazione sembra lineare, mostrandoci Sano nel suo lutto recente, il film sorprende presto con una struttura a ritroso. Torniamo indietro di cinque anni, nei giorni in cui Sano conobbe Nagi. Lei, giovane fotografa agli inizi, si esercita con la macchina fotografica come se volesse catturare frammenti di esistenza, fermare l’istante e dargli peso. In queste immagini riaffiora il ricordo malinconico del marito, che la evoca come una donna inquieta, fragile, forse non del tutto felice, portatrice a sua volta di rimpianti.

Il cast secondario accompagna la storia con recitazioni sobrie e naturali, che danno respiro e realismo alla vicenda, calando lo spettatore in atmosfere di vita vissuta. La struttura narrativa alterna presente e passato con una fluidità sorprendente, tanto che i due piani temporali sembrano fondersi in uno solo, come se il resort fosse un luogo sospeso in cui i ricordi si materializzano. In realtà, ciò che vediamo non è altro che la mente di Sano che, passo dopo passo, ricostruisce il dolore e lo affronta tornando a quei giorni iniziali.

Il finale non è mai in discussione: sappiamo già che l’amore si è interrotto con la morte. Ciò che conta è la delicatezza dei dettagli: un cappello rosso donato a Nagi, la passione condivisa per i film horror, il gesto di mangiare insieme spaghetti bollenti presi d’asporto. Non assistiamo all’evoluzione dell’amore, ma solo al suo germogliare: l’attimo fragile in cui due sconosciuti scoprono di piacersi. È qui che nasce l’ossessione del cappello rosso, oggetto che per Sano diventa l’illusione di riportare in vita la moglie.

Ma non è altro che un inganno: la maschera del dolore, l’ossessione che cela la vera piaga della perdita. Il cappello si fa metafora, legame invisibile e ossessivo, simbolo di ciò che non si può restituire. Sano vi proietta i rimpianti di non aver reso felice Nagi, di non aver saputo colmare i suoi vuoti. In quel semplice oggetto si concentra la voragine dell’assenza, il logorio di un dolore che non conosce cura.

Perché la perdita è questo: un male che corrode, che divora e che condanna a vivere nei ricordi, nei rimpianti, nelle parole che non abbiamo detto e nei gesti che non abbiamo compiuto. E se quei ricordi sono anche teneri e luminosi, restano pur sempre fragili, taglienti, freddi come il dolore stesso.

Curiosità

Il film è stato candidato al Director’s Award nelle Giornate degli Autori al Festival di Venezia.

Marco Fanciuso

Ciao! Sono Marco. Nato a Palermo, ho ottenuto il diploma presso un istituto tecnico. Fin dalla giovinezza coltivo una profonda passione per l'arte, con un amore viscerale per videogiochi, cinema, serie TV, libri e fumetti. Adoro analizzare ogni opera nei minimi dettagli e approfondire costantemente curiosità e argomenti diversi.
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