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I dieci comandamenti, Exodus e il Libro dell’Esodo

Della sostanziale pochezza contenutistico-stilistica del film Exodus – Dei e Re si è ampiamente discusso in sede di recensione, dalla quale è scaturita una sentenza critica severa e negativa.

L’assolutezza del giudizio emesso nei confronti della pellicola di Ridley Scott – regista a suo tempo brillante ma ormai preda di un decadimento forse da attribuire all’incalzante senilità – tiene conto di due pietre miliari che vanno considerate per la loro unicità, il loro fascino e l’intramontabile importanza: il Libro dell’Esodo e il film I dieci comandamenti, diretto nel 1956 da Cecil B. DeMille.

Proprio con quest’ultimo risulta fondamentale operare un serio confronto che evidenzi non i punti di forza di una pellicola indiscutibile quanto straordinaria, bensì la caducità dell’opera di Scott, troppo debole, snaturata e pavida per poter anche solo lontanamente competere con il capolavoro antenato.

Allora iniziamo analizzando per paragrafi tutte le differenze che hanno segnato il fallimento di Exodus, annunciato come tecnologico e ricco remake e palesatosi quale timido riflesso opaco di un pregiatissimo masterpiece in celluloide.

Incipit narrativo in medias res vs prologo storico

La scelta che nel cinema moderno risulta molto spesso vincente riguarda un incipit narrativo in medias res, tramite il quale lo spettatore in sala è catapultato sin da subito in un momento della storia non ben definito, privo di ogni spiegazione o introduzione ma sufficientemente costellato di elementi tali da favorire una comprensione immediata sebbene approssimativa e bisognosa di un approfondimento.

Interviene dunque una naturale progressione narrativa nel chiarimento di tutti gli intrecci formatisi, dei misteri, dei dubbi e degli eventi apparentemente inspiegabili. Exodus segue questa linea di condotta, svelando le origini del protagonista Mosè attraverso le parole dell’anziano e saggio schiavo ebreo Nun, una narrazione dunque diegetica, rievocativa.

Il film di DeMille, invece, opta per un racconto “a monte”, con un prologo storico e una donna, Yochabel, intenta a sottrarre il proprio bambino alla strage di primogeniti ebrei voluta dal faraone. Immersa fino alla vita nell’acqua del Nilo, la donna affida al fiume il piccolo, adagiato su una culla di giunchi intrecciati, pregando Dio di salvarlo.

La sorella Miriam lo segue con lo sguardo fino ai bagni di Bithia, la figlia del faraone, vedova e sterile, che alla vista del bambino decide di tenerlo quale dono degli dei e coronamento dei suoi sogni di madre. Dall’Esodo 2,1-10:

1 Un uomo della famiglia di Levi andò a prendere in moglie una figlia di Levi. 2 La donna concepì e partorì un figlio; vide che era bello e lo tenne nascosto per tre mesi. 3 Ma non potendo tenerlo nascosto più oltre, prese un cestello di papiro, lo spalmò di bitume e di pece, vi mise dentro il bambino e lo depose fra i giunchi sulla riva del Nilo.

4 La sorella del bambino si pose ad osservare da lontano che cosa gli sarebbe accaduto. 5 Ora la figlia del faraone scese al Nilo per fare il bagno, mentre le sue ancelle passeggiavano lungo la sponda del Nilo. Essa vide il cestello fra i giunchi e mandò la sua schiava a prenderlo. 6 L’aprì e vide il bambino: ecco, era un fanciullino che piangeva. Ne ebbe compassione e disse: «È un bambino degli Ebrei».

7 La sorella del bambino disse allora alla figlia del faraone: «Devo andarti a chiamare una nutrice tra le donne ebree, perché allatti per te il bambino?». 8 «Va’», le disse la figlia del faraone. La fanciulla andò a chiamare la madre del bambino. 9 La figlia del faraone le disse: «Porta con te questo bambino e allattalo per me; io ti darò un salario». La donna prese il bambino e lo allattò.

10 Quando il bambino fu cresciuto, lo condusse alla figlia del faraone. Egli divenne un figlio per lei ed ella lo chiamò Mosè, dicendo: «Io l’ho salvato dalle acque!».

Il rapporto fra Mosè e Ramses, cugini o fratelli?

Un pregio di Exodus è indubbiamente quello di aver chiarito il rapporto affettivo intercorrente fra Mosè e Ramses II, non lungamente specificato dal film del 1956. Ebbene Mosè, in quanto figlio (adottivo) di Bithia, sorella di Seti, è correttamente identificato come cugino di Ramses II, coetaneo figlio (naturale) di Seti. Il titolo di “fratello” è voluto dallo stesso Seti per cementare il sodalizio parentale fra Mosè e Ramses II, cresciuti insieme ed educati per perseguire i medesimi valori.

Exodus: Mosè e Ramses sono legati nonostante le diverse vedute, e il loro rapporto non è intaccato da alcuna rivalità o competizione in quanto non incombe l’ambizione al trono.

Mosè non può diventare faraone, non gli è concesso poiché non dello stesso sangue di Seti e Ramses lo sa. Li separa, tuttavia, l’integrità individuale: Mosè è astuto, diplomatico e predisposto alla strategia di guerra; Ramses corrisponde all’esatto opposto, è impulsivo, suscettibile e avventato.

I dieci comandamenti: Ramesse non riconosce Mosè come fratello (lo ritiene infatti un “presunto fratello”), rivaleggia con lui sentendosi minacciato nella corsa al trono, lo tratta con freddezza, strafottenza e alterigia. Il termine “cugino” non viene mai menzionato.

Esodo: il Libro Sacro dice poco o nulla sui principi e relativo rapporto, lasciando campo libero all’interpretazione cinematografica.

L’importanza degli attori e del soggetto

Il Mosè messo in scena da Ridley Scott è la nemesi di quello delineato e caratterizzato da DeMille, così come Ramses, profondamente diverso dal Ramesse del ’56. Il profeta levita di Exodus abbraccia la via del guerriero, saggio ma feroce, votato alla ragione e sprezzante dei riti divinatori adottati dai sacerdoti egiziani.

Una volta acquisita consapevolezza delle proprie origini, passa alla sponda del popolo eletto nutrendo la medesima affezione alle armi, ritenute l’unico mezzo (a suo avviso) per imporre il sentimento di ribellione e rivalsa.

Il personaggio sintetizzato da DeMille, come detto, è antitetico: dimostrato tutto il suo valore nella conquista dell’Etiopia, il condottiero assume una veste più romantica, è comprensivo, rispettoso di usi e costumi religiosi e incuriosito dal comportamento indomito di alcuni schiavi ebrei, tra i quali si distingue un coriaceo Giosuè.

La sua convinzione lo porta a ricercare l’alleanza attraverso il dialogo, guadagnandosi la stima dei popoli vinti e, soprattutto, di Seti. Sotto l’insegna ebraica ripudia definitivamente ogni sorta di violenza e arma, abbandonandosi completamente all’ascolto del Dio di Abramo.

Un Mosè per due attori: Charlton Heston e Christian Bale

Sugli attori c’è ancor più da dibattere. Christian Bale raccoglie l’eredità di Charlton Heston ma è figlio di uno star system radicalmente differente dal divismo risalente a oltre 60 anni fa. Bale approda alla megaproduzione biblica dopo tanti ruoli camaleontici in molteplici generi distinti, nei quali ha sempre meritato l’elogio dei critici.

American Psycho (2000), L’uomo senza sonno (2004), la trilogia sul Batman di Nolan (2005, 2008, 2012) e The fighter (2010) rimangono memorabili soprattutto per la sua presenza e capacità di muoversi con disinvoltura entro uno spazio non facile da magnetizzare.

Bravo lo è e tanto, ma in Exodus la sfida con il predecessore la perde, complice una sceneggiatura che svilisce la sua interpretazione. Charlton Heston si impone inizialmente nel cinema western, specializzandosi in seguito nei colossal più importanti della Settima Arte a stelle e strisce: I dieci comandamenti (1956), Ben-Hur (1959), El Cid (1961), Il tormento e l’estasi (1965) e molti altri. L’attore è gettonatissimo per la sua fisicità, il volto scolpito e quell’interiorità che sa esternare trasmettendo un raro senso di stima, orgoglio ed empatia.

Il Ramesse di Yul Brynner, il Ramses II di Joel Edgerton

Joel Edgerton si fa seriamente conoscere con Warrior (2011), ma la sua carriera prosegue dal 1996 a fasi alterne. Buon attore, non ancora sbocciato, che soccombe al piglio autoritario di un imperioso Yul Brynner, formidabile nel film di DeMille ma anche in Il re ed io (1956), Karamazov (1958) e Taras il magnifico (1962). Sguardo glaciale e postura muscolare lo rendono il divo marmoreo ideale per vestire i panni del prode o dell’antagonista.

Rappresentazione di Dio e comunicazione con il Liberatore

La religione ebraica non ammette alcun tipo di riproduzione iconografica di Dio, punto di riferimento, Alfa e Omega di un’intera escatologia nemica dell’idolatria e dell’adorazione. Questo concetto è sposato in pieno da Cecil DeMille, che nel suo capolavoro traspone alla lettera il racconto sacro, rappresentando l’Altissimo su due livelli concatenati, quello visivo e quello sonoro.

Un roveto arde ma non si consuma, attirando Mosè sul monte Oreb con la sua luce e prostrandolo con una voce roboante che a lui si rivolge (resa con il fuori campo).

Scott prova ad arricchire (con un goffo tentativo) questa rappresentazione, mostrando prima il roveto e poi facendo comparire d’improvviso un bambino, che parla a Mosè con un tono arrogante che indispettisce. L’aggiunta, probabilmente dovuta all’esigenza del regista (e degli sceneggiatori) di offrire una presenza mistica inconsueta e a suo modo allegorica (il gigante che prende le spoglie di un fanciullo per poter dialogare senza barriere o riverenze con il profeta), si palesa irritante quanto inutile, ma soprattutto provocatoria poiché assolutamente controcorrente rispetto al Libro dell’Esodo, 3,1-6:

Ora Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, e condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb.L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco in mezzo a un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva nel fuoco, ma quel roveto non si consumava. Mosè pensò: «Voglio avvicinarmi a vedere questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?».

Il Signore vide che si era avvicinato per vedere e Dio lo chiamò dal roveto e disse: «Mosè, Mosè!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Non avvicinarti! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa!». E disse: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe». Mosè allora si velò il viso, perché aveva paura di guardare verso Dio.

Exodus disorienta, focalizzando l’attenzione su un Mosè polemico, in lotta dialogica con Dio, talvolta adirato e poco avvezzo a seguirne i dettami. Prevale un dubbio (verso il Divino e verso se stesso) che, giustamente, ne I dieci comandamenti non trova posto.

Grave lacuna, poi, nella nomenclatura di presentazione: il bambino rivela un nome incompleto, Io sono!, quando sappiamo che in questo il Libro dell’Esodo è chiaro.

3,13-15: Mosè disse a Dio: «Ecco io arrivo dagli Israeliti e dico loro: Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Ma mi diranno: Come si chiama? E io che cosa risponderò loro?».14 Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono!». Poi disse: «Dirai agli Israeliti: Io-Sono mi ha mandato a voi».

15 Dio aggiunse a Mosè: «Dirai agli Israeliti: Il Signore, il Dio dei vostri padri, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione.»

DeMille cura i dialoghi del suo capolavoro con attenzione quasi maniacale, ma tale atteggiamento premia per la fedeltà al testo, essenziale.

Spada o bastone?

In Exodus la natura guerriera di Mosè è rimarcata attraverso la spada, un’arma concepita per fare del male, tagliare e trafiggere. Dono di Seti, non la abbandonerà mai, nemmeno nel corso dell’Esodo. Date un’arma a un uomo ed egli si sentirà più sicuro e capace di difendersi dalla violenza rispondendo con la violenza.

Riemerge così un’antica legge, quella del taglione, espressa con la proposizione “occhio per occhio, dente per dente” e presente nel Libro del Levitico 24, 19-20:

«19 Se uno farà una lesione al suo prossimo, si farà a lui come egli ha fatto all’altro: 20 frattura per frattura, occhio per occhio, dente per dente; gli si farà la stessa lesione che egli ha fatta all’altro.»

Ne I dieci comandamenti è invece un bastone da pastore l’unica concessione offerta da Ramesse a Mosè poco prima di esiliarlo, ed effettivamente il suddetto bastone diverrà l’arma attraverso cui Dio manifesterà la sua potenza.

DeMille gira una sequenza fantastica nella quale Mosè e Aronne, di fronte al faraone, gettano il bastone ai piedi del trono vedendolo tramutarsi in un serpente, terribile, così feroce da divorare i serpenti a lui contrapposti dai maghi e dagli incantatori del sovrano egiziano.

Dice il Libro dell’Esodo 7, 10-12:

10 Mosè e Aronne vennero dunque dal faraone ed eseguirono quanto il Signore aveva loro comandato: Aronne gettò il bastone davanti al faraone e davanti ai suoi servi ed esso divenne un serpente. 11 Allora il faraone convocò i sapienti e gli incantatori, e anche i maghi dell’Egitto, con le loro magie, operarono la stessa cosa. 12 Gettarono ciascuno il suo bastone e i bastoni divennero serpenti. Ma il bastone di Aronne inghiottì i loro bastoni.

Resa scenica delle piaghe

Parlando del bastone, va da sé il dibattimento sulle dieci piaghe che Dio infligge al popolo d’Egitto nel tentativo di convincere il faraone a lasciar partire gli schiavi. Il punto di vista di DeMille in proposito appare, per una volta, sintetico e intuitivo.

La rappresentazione visiva si concentra sull’arrossamento del Nilo, sulla grandine e sul fuoco, chiudendo con l’Angelo della Morte che si abbatte sui primogeniti. Le altre sei piaghe (rane, zanzare, mosche, morìa del bestiame, ulcere su animali e umani, cavallette, tenebre) sono rese note dai sacerdoti, che ne parlano come già svoltesi con inquietanti conseguenze.

La prospettiva di Scott punta invece a una maggior spettacolarizzazione, grazie alla computer grafica (della quale, nel 1956, DeMille non poteva avvalersi), trattando con maggior completezza tutte e dieci le catastrofi ma capitolando sulla prima, quella che riguarda il Nilo.

Il trend del cinema moderno vuole allora che il fiume si arrossì a causa della strage compiuta da enormi coccodrilli ai danni di un manipolo di barcaioli. Non è così che andò.

Esodo 7, 20-21: 20 Mosè e Aronne eseguirono quanto aveva ordinato il Signore: Aronne alzò il bastone e percosse le acque che erano nel Nilo sotto gli occhi del faraone e dei suoi servi. Tutte le acque che erano nel Nilo si mutarono in sangue. 21 I pesci che erano nel Nilo morirono e il Nilo ne divenne fetido, così che gli Egiziani non poterono più berne le acque. Vi fu sangue in tutto il paese d’Egitto.

L’esilio di Mosè

L’esilio è l’episodio biblico sul quale entrambe le versioni cinematografiche ricamano abbondantemente, sbagliando.

I dieci comandamenti: per salvare Giosuè dalle mortali frustate inflittegli a seguito di un tentativo di ribellione, Mosè uccide il capo costruttore, Baka, fuggendo per evitare di essere catturato. Tramite l’infido Dathan, Ramesse scopre l’identità dell’assassino, imprigiona Mosè e lo conduce dinanzi a Seti proprio nel giorno del Giubileo, dove il destino del futuro profeta è affidato al cugino, che decide di non farne un martire e abbandonarlo, allora, nel deserto.

Exodus: la dinamica appare simile ma con diversità romanzate. Ramses scopre, grazie alla soffiata del meschino ministro egiziano, che Miriam è la sorella di Mosè. Per farlo confessare, si prepara a mozzare la mano della donna ma è fermato dal cugino, che rivela egli stesso la verità ed è così condannato all’esilio. Peccato, tuttavia, che Ramses non c’entri nulla con la punizione.

Esodo, 2, 11-15: 11 In quei giorni Mosè, cresciuto in età, si recò dai suoi fratelli e notò i lavori pesanti da cui erano oppressi. Vide un Egiziano che colpiva un Ebreo, uno dei suoi fratelli. 12 Voltatosi attorno e visto che non c’era nessuno, colpì a morte l’Egiziano e lo seppellì nella sabbia. 13 Il giorno dopo, uscì di nuovo e, vedendo due Ebrei che stavano rissando, disse a quello che aveva torto: «Perché percuoti il tuo fratello?».

14 Quegli rispose: «Chi ti ha costituito capo e giudice su di noi? Pensi forse di uccidermi, come hai ucciso l’Egiziano?». Allora Mosè ebbe paura e pensò: «Certamente la cosa si è risaputa». 15 Poi il faraone sentì parlare di questo fatto e cercò di mettere a morte Mosè. Allora Mosè si allontanò dal faraone e si stabilì nel paese di Madian e sedette presso un pozzo.

Nefertari

L’opera del 1956 è riconosciuta quale emblema di un felice connubio fra due dimensioni, quella biblica e quella romantica, perfettamente fuse a creare una storia ricca di soluzioni narrativo-visive che sfociano nell’ideale, cinematograficamente parlando.

In linea con il sentimentalismo (a volte un po’ melenso) degli anni ’50, DeMille trova l’escamotage per dare corpo a un personaggio storico, la regina Nefertari, catapultandola d’impeto nella grande parabola religiosa di cui Mosè è il protagonista. La donna, sradicata dalla propria importanza storico-politica, diviene una sorta di premio per chi, tra Ramesse e Mosè, salirà al trono succedendo al faraone Seti.

E’ lei a inasprire la contesa, è lei a provare eterno rancore verso Mosè, reo di aver inutilmente confessato la sua vera origine e averla, di conseguenza, destinata a una vita triste con Ramesse, uomo mai amato e, anzi, detestato.

Interpretata da Anne Baxter, Nefertari risulta dunque fondamentale nella sfera emozionale dei contendenti, scivolando pian piano in una marginalità che la relega ad anima scontenta, il cui canto del cigno consiste nel convincere Ramesse a inseguire e massacrare gli Ebrei fuggiti dall’Egitto.

Exodus confina Nefertari nell’oblio della fugace quanto insulsa apparizione: Golshifteh Farahani è chiamata a un cameo risicato dove entra ed esce dalla scena senza alcun spessore. La sovrana è già sposa di Ramses, non ha nulla a che fare con Mosè ed è privata di ogni potere decisionale spettante a una consorte del sovrano. I quattro sceneggiatori optano per una narrazione scevra di fronzoli, affatto mielosa ma proprio per questo troppo rappresa, venale e nel complesso insufficiente a soddisfare l’orizzonte d’attesa.

La meraviglia del Mar Rosso

Dice il Libro dell’Esodo 14, 21-22: 21 Allora Mosè stese la mano sul mare. E il Signore, durante tutta la notte, risospinse il mare con un forte vento d’oriente, rendendolo asciutto; le acque si divisero. 22 Gli Israeliti entrarono nel mare asciutto, mentre le acque erano per loro una muraglia a destra e a sinistra.

I dieci comandamenti raggiunge l’apice della rappresentazione proprio con la descrizione del passaggio del Mar Rosso e, soprattutto, della sua apertura dopo che Mosè ebbe spalancato le braccia verso il mare. E’ una sequenza davvero imponente, a dir poco impressionante se si pensa realizzata nel 1956 e senza l’ausilio di una computer grafica ora capace di tutto.

Perplime e tanto, invece, la scelta di Ridley Scott di non mostrare in Exodus assolutamente niente di tutto ciò, consegnandoci per contro una scena di second’ordine con più d’un errore: gli Ebrei iniziano ad attraversare il Mar Rosso ancora con l’acqua alle ginocchia e ai lati del loro passaggio vi si trova solo un’imbarazzante assenza che mortifica l’epicità di cui è ricco l’episodio biblico.

Quando tocca agli Egiziani solcare il terreno, il mare si chiude ricomparendo con un’onda altissima che travolge i carri… e persino Mosé e Ramses poco prima di un assurdo faccia a faccia guerresco inenarrabile. I due, inspiegabilmente, si salvano, ritrovandosi su sponde opposte, feriti ma vivi.

La domanda è lecita: “Perché un regista, capace di stupire con un capolavoro come Blade Runner, anziché migliorare nel XXI secolo una tecnica degli anni ’50, preferisce fuggire da questa grande responsabilità, lasciando allo spettatore solo una sequenza mediocre e per altro inesatta sotto molti aspetti?”

Risposta: “Non essendone evidentemente in grado, egli ha optato per l’effetto speciale più inflazionato, sicuro ed efficace ma meno spettacolare, il montaggio.” DeMille è di un altro pianeta.

Le Tavole della Legge

Sappiamo che l’Esodo, in sé e per sé, vale in qualità di evento religioso epocale, finalizzato però a qualcosa di ancora più grande e memorabile, anzi eterno. Il monoteismo più antico, legato al Dio di Abramo, contava un vettore unidirezionale costituito dal credo dell’uomo e dalla sua azione nel mondo secondo auto imposizioni personali scaturite da un’interpretazione.

Con la pronuncia del Sacro Decalogo, Dio regola finalmente il proprio rapporto con gli uomini e, soprattutto, fra gli uomini, dando loro delle leggi da seguire. Il Divino scolpisce una decade di imprescindibili comandamenti nella pietra del monte Sinai, consegnando a Mosé due tavole da mostrare al popolo ebraico e tramandare nei secoli a venire.

Nel 1956 Cecil DeMille valorizza al massimo delle sue possibilità questo momento, teatralizzandolo con lingue di fuoco, una voce fuori campo che s’impone (Dio è doppiato dallo stesso DeMille nella versione originale) e una colonna sonora strabordante.

Cosa fa, invece, Ridley Scott? Anche in questo caso – come nell’episodio del Mar Rosso – si sottrae per negligenza alla ricchezza scenica, inquadrando Mosé nell’atto di scolpire egli stesso il Decalogo, dettato dal Dio bambino che lo ha accompagnato lungo tutto il tortuoso percorso di libertà.

Dal Libro dell’Esodo 31, 18: Quando il Signore ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai, gli diede le due tavole della Testimonianza, tavole di pietra, scritte dal dito di Dio.

Il vitello d’oro

La meschina natura dell’uomo si rivela in tutta la sua subdola veste nel vitello d’oro costruito dal popolo ebraico, stanco di attendere la discesa di Mosé dal Sinai e indotto all’idolatria.

Dice il Libro dell’Esodo 32, 1-3: Mentre Mosè era sul monte per ricevere la legge da Dio, il popolo si ribellò contro Aronne. Questa grande folla era stanca dell’attesa di Mosè. Aronne costruì un idolo a forma di bue o vitello, dandogli qualche tocco finale con uno strumento di carenaggio. Essi offrivano sacrificio a questo idolo. Avendo realizzato un’immagine davanti a loro e avendo cambiato così la verità di Dio in una bugia, i loro sacrifici erano un orrore.

DeMille dedica una pingue porzione di film a quest’atto di sfiducia, mostrando la preparazione dell’idolo, la venerazione, l’indignazione di Mosé, la rabbia dell’Altissimo e il pentimento dei partecipanti. Scott relega il vitello d’oro sullo sfondo, s’intravede appena, vittima sacrificale dei tagli scriteriati compiuti in fase di montaggio.

Exodus, in breve, rappresenta un autentico fallimento quando poteva in verità affermarsi come un capolavoro nelle vesti di remake potenzialmente gratificato da una nuova, avveniristica, dimensione cinematografica.

I Dieci Comandamenti è passato alla storia non per caso. Non tutti sanno che si tratta di un rifacimento di un colossal muto diretto sempre da DeMille nel 1923. Migliorare un capolavoro è possibile, dunque, ma la grandezza artistica è di pochi eletti, e DeMille appartiene certamente a questo raro consesso.

Samuele Pasquino

Classe 1981, mi sono laureato in Lettere presso l'Università degli Studi di Torino. Giornalista dal 2012, ho studiato storia del cinema specializzandomi nell'analisi di pellicole di tutti i generi dalla nascita della Settima Arte a oggi. Tenendo ben presente il concetto di lettura non come intrattenimento bensì come formazione, mi occupo da anni anche di turismo e realizzo reportage di viaggio. Estremamente sensibile alla tematica enogastronomica, tratto la materia con un'attenzione specifica verso la filiera di qualità fra tradizione e innovazione. Per me il giornalismo non è solo una professione, è una missione!
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