Davanti a una parete di roccia argillosa, su una spiaggia di sabbia finissima, due individui (Diego Abatantuono e Giuseppe Cederna) litigano energicamente. Un terzo personaggio (Claudio Bigagli) prova a intervenire per sedare gli animi, ma viene coinvolto in una zuffa con altre persone lì intorno.
Si tratta di giovani uomini, tutti intorno alla trentina. Indossano abiti succinti – pantaloni corti, magliette, bandane – e hanno tutti l’aspetto di villeggianti. Uno di loro tiene in mano un pallone. Finalmente, a dirimere la questione interviene il primo dei due litiganti. Solleva le braccia, e con l’aria di chi sta per fare un annuncio importante dichiara: “Stop! Allora, è rigore!”.
A questo punto, è chiaro: si sta giocando una partita di calcio. La cosa interessante è che a giocarla non sono dei semplici bagnanti, ragazzoni un po’ cresciuti e bighelloni, ma dei veri e propri soldati, militari italiani in missione di guerra.
La storia di Mediterraneo
Mediterraneo (Gabriele Salvatores, 1991) è ambientato durante la Seconda guerra mondiale, durante la campagna di Grecia. Un piccolo manipolo di uomini, sbarcato in un’isola sperduta dell’Egeo con l’incarico di sorvegliare le rotte nemiche, rimane bloccato sul posto dopo aver perduto la nave in un siluramento notturno. Come se non bastasse, sopraggiunge un’avaria della radio che li priva di ogni speranza di soccorso.
A quel punto, ineluttabilmente, il plotone si trova tagliato fuori dal conflitto e isolato dal resto del mondo. Ognuno si adatta alla nuova situazione secondo la propria personalità: c’è chi dipinge l’interno della chiesa ortodossa, chi passa il tempo con una prostituta, chi cerca ogni volta di tornarsene a casa.
Inoltre, rapportandosi con gli autoctoni greci, i soldati hanno modo di scoprire e apprezzare a poco a poco una diversa civiltà, una cultura sconosciuta che nella propaganda fascista veniva brutalmente demonizzata, etichettata sbrigativamente come “inferiore” o “nemica”. Ma torniamo alla partita.
Un aeroplano dal cielo: l’arrivo dell’aviatore italiano
Dopo aver deciso per il calcio di rigore, i giocatori si dispongono alle spalle del tiratore, continuamente provocato dal portiere. Qui il film ci propone due inquadrature, una per parte. I giocatori sono visti frontalmente, ammassati nello stretto campo visivo, con due soli colori sullo sfondo: il bianco accecante della sabbia, e l’azzurro dei rilievi in lontananza. Due pali conficcati ai lati danno il senso delle proporzioni.
Dall’altra parte, la visione non cambia: solamente, è ripresa leggermente più dal basso, quel tanto che basta per far apparire il portiere quasi schiacciato dalla massa azzurrina del cielo. È la dimensione visiva della solitudine e dell’isolamento, la trascrizione per immagini di una condizione esistenziale di torpore e sbandamento.
All’improvviso, alle spalle del portiere compare un piccolo aeroplano militare: una sorta di apparizione agli occhi increduli del gruppo, una specie di messo proveniente dal cielo. Il portiere, però, non se ne accorge. Gli altri gli fanno cenno di spostarsi, lo chiamano, ma niente. Solamente quando li vede fuggire si accorge del pericolo, e li segue spaventato.
Non si tratta, però, di un aereo nemico. È un aviatore italiano, che li aggiorna sulla situazione del paese dopo l’armistizio dell’8 settembre: gli amici sono diventati nemici, e viceversa. A questo punto, i soldati devono scegliere se tornare per combattere una guerra che devono credere giusta – e contribuire a ricostruire un paese se possibile migliore – oppure rimanere dove sono, dimenticando tutto il resto, come i lotofagi incontrati da Ulisse.
Soldati estranei alla guerra
Ci sono voluti cinquant’anni prima che il cinema italiano si scrollasse definitivamente di dosso ogni traccia di puerile patriottismo nel parlare della guerra; patriottismo che, nei grandi autori, era frutto di una volontà sincera di riscatto, ma negli altri era soltanto una questione di retorica. Per la prima volta, i soldati italiani non appaiono più soltanto refrattari alla guerra, o inadatti alle pose marziali. Sono estranei totalmente alla vicenda bellica.
Le ragioni per le quali sono lì, non soltanto non le approvano, o le aborrono, ma di fatto nemmeno le comprendono. La guerra li ha sorpresi mentre adempivano alle loro mansioni quotidiane, come un fulmine a ciel sereno; le stesse mansioni di cui bene o male continuano a occuparsi in quella terra di nessuno.
Gli italiani hanno subito la guerra esattamente come hanno subito quasi sempre la politica: non sono mai stati chiamati realmente a decidere. E una volta tornati, che cosa hanno trovato? Indifferenza, ingratitudine e rovina. La percezione, insomma, di essere stati abbandonati. Italiani sì, ma di quale Italia? È la lezione di questo bel film.