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Il mito di Jim Morrison

Oliver Stone è essenzialmente un regista barocco. Le sue immagini sono spesso sovraccariche, i movimenti della cinepresa in molti casi funambolici; i suoi personaggi sono sovente esaltati, eccedono nei gesti e nei discorsi. Tutto questo assume un significato particolare se consideriamo Stone come un fabbricatore di miti.

Il suo Cinema rappresenta l’altra faccia del colosso hollywoodiano: la base è fondamentalmente la stessa, così come il linguaggio; è lo spirito che cambia. Il regista ha voluto rappresentare la controparte nevrotica, schizofrenica, malata del grande sogno americano. I suoi personaggi sono bestie assetate di vita, percorrono freneticamente il loro territorio alla disperata ricerca di mete impossibili.

In essi si raccolgono le ombre della ‘Hollywood bene’, gli elementi non edificanti, nocivi. In questo suo tentativo di ribaltamento, Stone ha più volte – nella sua lunga carriera – centrato il bersaglio. Altre volte, invece, l’obiettivo gli è sfuggito di mano, procurandogli critiche anche piuttosto pesanti. Un film come The Doors si trova a metà strada tra questi due estremi, e ne vedremo insieme il motivo.

Jim Morrison nella storia della band

Stone ripercorre la storia della band statunitense incentrandola quasi esclusivamente sul personaggio di Jim Morrison, ed è normale: un’alchimia troppo complessa di ragioni e di scambi tra i membri del gruppo avrebbe compromesso irrimediabilmente il concetto di uomo straordinario, che sta alla base del mito. Jim campeggia davanti a tutti: il resto è solo sfondo, un accidente necessario.

The Doors tra biografia e leggenda

Il film è costruito su due binari paralleli: la biografia e, appunto, la leggenda. Questo permette al regista di mostrarsi fedele alla realtà, in certi punti, con una cura persino maniacale. Per i fan dei Doors, infatti, sarà facile riconoscere alcuni particolari avvenimenti ricostruiti, rintracciabili in filmati e documenti fotografici. Il regista non trascura nemmeno il colore degli abiti, la lunghezza dei capelli, la struttura del palco; Val Kilmer a tratti è il sosia di Morrison.

Il concerto di Miami del ’69

Questo realismo, però, appartiene alla fase preparatoria: dopo il ciak, questa verosimiglianza viene meno. Prendiamo ad esempio un momento importante come il concerto di Miami del ’69. Si tratta insieme di un punto dolente nella carriera della band, l’inizio della fine, come direbbe qualcuno, ma anche di un episodio chiave che avrà forti ripercussioni nel futuro di un genere, come il rock, da sempre tacciato di maledettismo.

Il concerto inizia in un clima di attesa e di tensione. Morrison è in gravissimo ritardo e, per giunta, sotto l’effetto evidente di droghe. Il montaggio diventa frenetico: brevi fotogrammi si susseguono incalzanti, come una successione di fotografie. Ogni posa, ogni gesto è un avvenimento da immortalare, non è frutto di un prima e di un dopo.

La cinepresa è sempre in movimento: la sua posizione è sovente inclinata, cosicché le immagini appaiono prive di equilibrio, senza un preciso assestamento. Tutto ciò, insieme all’intermittenza delle luci, contribuisce a creare un clima allucinato e irreale. E così deve essere: il mito sfiora soltanto la realtà; la prescinde, ne può fare a meno. Il mito è sempre necessariamente una semplificazione: di qui il soggetto, dall’altra parte il resto.

Per questo la figura di Jim, se da una parte affascina ed attrae, dall’altra è solo istrionica perché non può fare tutto da sola. Essa è frutto di un contesto, di un certo clima e di una certa cultura. Non appena Stone prova a inquadrarla, ci accorgiamo che gli sfugge del tutto.

Prendiamo il pubblico, ad esempio. Invece di essere il referente, l’interlocutore naturale cui il cantante si rivolge, esso è soltanto un fondale dipinto. L’ansia di liberazione è soffocata da una coltre surreale; le istanze egualitarie, la disobbedienza sociale, la trasgressione sessuale sono ritratti con le tinte fosche della depravazione, della pura follia.

Quando poi, alla fine, irrompe il caos, quando crolla il palco e Morrison viene sollevato dalla folla impazzita, abbiamo l’impressione di trovarci di fronte a un quadro secentesco, una deposizione bizzarra gremita di diavoli e spiritelli, dai colori esasperati e dalle luci smorte, un’allegoria misteriosa che ha perduto ormai ogni riferimento concreto.

Ma questo non deve stupirci. Infine l’abbiamo già detto: Stone è un regista barocco.

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