Se il raffinato e fanciullesco Hugo Cabret rappresenta a oggi il nostalgico omaggio al grande cinema del maestro Martin Scorsese, allora è lecito considerare La forma dell’acqua di Guillermo Del Toro fra le più alte e significative espressioni poetiche di denuncia della discriminazione. Valore e cifra stilistica attribuiti al capolavoro del regista messicano sono cosa nota, evidente e indiscutibile, ma oltre lo sfavillante lirismo estetico s’apre la porta di una dimensione che unisce e riunisce in un solo spazio distinte tipologie di minoranze.
“Incapace di percepire la tua forma,
ti ritrovo ovunque intorno a me.
La tua presenza mi riempie gli occhi con il tuo amore,
e commuove il mio cuore,
perché sei ovunque.”
Discriminazione e paura del diverso
Nella propria visione cristallizzata dal più puro onirismo, Del Toro accorpa in un metaforico abbraccio i suoi piccoli eroi, personaggi di una favola cullata dall’armonia della narrazione ma anche strapazzata dai tremendi scossoni della cattiveria fomentata dalla paura del diverso.
Discriminazione – abbiamo detto – ch’è acida madre funesta dell’emarginazione, talvolta terribilmente passiva, molto più spesso preludio di una crudele caccia alle streghe. La forma dell’acqua è una storia di ritratti amari, quelli di Elisa, del vicino di casa Giles, dell’amica Zelda e della creatura anfibia. Sono tutti prigionieri, impossibilitati a vivere una vita legittima, espiantati dalla consuetudine dell’esistenza perché “ritenuti” anormali.
Elisa
Elisa (una commovente e dolce Sally Hawkins) è muta, resa tale in giovanissima età, esile, non bella, praticamente invisibile ma estremamente sensibile alla meraviglia insita nelle più piccole cose, oggetti, gingilli, monili, suppellettili di cui ama circondarsi nel suo appartamento in affitto. Come una novella Amélie Poulain, si nutre di stupore, di riti quotidiani, di una speranza d’amore. Nella sua personalissima casa delle bambole, ella scaccia l’indifferenza con il potere dei sogni, fantasticando in una vasca piena d’acqua dove ogni mattina rigenera se stessa in un fugace slancio d’autoerotismo.
Giles
Giles (Richard Jenkins) è il maturo vicino di casa, pittore affranto dall’incalzante avanzare degli anni, omosessuale tristemente abituato a reprimere la libertà del suo essere, specialmente quando si reca alla tavola calda a comprare fette di torta al lime sistematicamente accumulate nel frigo. Motivo: è attratto dal ragazzo che lo serve.
Oramai naufragata la relazione con il suo principale committente (ci conviveva), Giles si abbandona al silenzio dello studio votato all’arte dei paesaggi, dei quadri impressionisti e dei volti come quello delicato ed elegante di Audrey Hepburn, celebratissima diva di Hollywood che nel 1962 (anno in cui è ambientata la vicenda) era reduce dal successo di Colazione da Tiffany e si apprestava a girare Sciarada, altro indimenticabile cult.
Zelda
Zelda – non a caso interpretata dall’attrice Premio Oscar per The Help Octavia Spencer – è una donna afroamericana, impiegata delle pulizie insieme a Elisa nel laboratorio governativo dove vengono effettuati esperimenti top secret a scopo militare. Lei deve invece fare i conti con l’odio razziale perpetrato negli Stati Uniti d’America fin dall’epoca coloniale. Ebbene, la pellicola non sembra viziata dall’intolleranza sociale patita dai cittadini di colore, o perlomeno non apparentemente. Zelda lamenta per contro l’apatia e l’assenza di dialogo con il marito Brewster, la trascuratezza dell’uomo.
La creatura anfibia
Infine ecco lei, la creatura anfibia, la vera protagonista di tutta la storia. Dall’aspetto umanoide, per il quale Del Toro ha dichiarato di essersi ispirato al Mostro della Laguna Nera, lo strano essere (Doug Jones) è vittima di qualcosa che purtroppo accade dal momento in cui l’uomo si è arrogato il diritto di razziare, depredare e appropriarsi di ogni risorsa presente su questa benedetta Terra. Prima gli africani durante il periodo della tratta degli schiavi neri, poi gli indios e i pellerossa, e adesso lui, il “Mostro” catturato in un villaggio amazzonico e trasportato in un tubo di vetro pieno d’acqua salinizzata.
Gli incontri tra Elisa e la creatura avvengono in cattività, nel freddo ambiente artificiale di un bunker sotterraneo. Le uova, la musica, il linguaggio dei segni: queste due anime solitarie abbattono ogni tipo di convenzione, arrivando persino a consumare un amplesso al fine di testimoniare la purezza di un amore salvifico, condiviso da due emarginati. Talmente puro che sia Giles che Zelda diventano complici di quell’inedito rapporto: complicità senza scalpore né indignazione, perché nella solidarietà della discriminazione esiste un valore più forte di qualunque altro, la comprensione.
Il colonnello Strickland
Il colonnello Strickland (Michael Shannon) incarna il persecutore, che nell’esercizio della sistematica vessazione e della sadica tortura operata nei confronti dell’anfibio non risparmia attacchi verbali sempre più violenti all’indirizzo di Zelda ed Elisa, le “pulitrici di merda e piscio”. La sua perversa attrazione per la ragazza si lega prevalentemente alla fragilità attribuita a quel mutismo definito un bene.
La palese misoginia del militare – già dimostrata zittendo a più riprese la moglie durante la sessione di sesso estemporaneo – esplode nel confronto vis a vis con Elisa, che lui è convinto di poter far gemere sotto le lenzuola. L’incarnazione della persecuzione storica: il “Mostro” è Strickland, non la creatura.
La storia di Ruth
La discriminazione come reale oggetto del discorso giustifica infine la scelta del film proiettato – in coabitazione con Mardi Gras – nella sala cinematografica sottostante gli appartamenti di Elisa e Giles, ovvero La storia di Ruth (1958), una parabola biblica che chiama in causa la questione ebraica qualche millennio prima della Shoah, la più folle e tragica delle discriminazioni.
“L’acqua che avvolge tutto è metafora di un diluvio che distrugge e, al contempo, salva ciò che c’è da salvare consegnandolo all’eternità.”