La presunzione di sapere ormai tutto dei capolavori cinematografici diretti da Stanley Kubrick ci invita a parlarne come se ciò fosse effettivamente vero. Prendiamo Shining per esempio: sulla trasposizione del celeberrimo romanzo di Stephen King sono stati scritti molteplici saggi e le teorie dei critici hanno ispessito la già folta pletora di congetture, tesi, interpretazioni esistenti.
Eppure il solo immaginare di conoscere a fondo il multiverso autoriale del sommo regista britannico – applicato in parte all’horror evinto dall’opera letteraria di King – corrisponde a una mera illusione. In verità, a ogni visione di Shining si ha la reale sensazione che – per quanto reiterato lo studio di ciascuna scena nell’arco di (n) anni – qualcosa ci sfugga occupando la zona d’ombra al di là dell’umana comprensione.
Kubrick di umano aveva ben poco, lo dimostra il fatto che il suo genio abbia prodotto nel tempo tanti di quei quesiti, misteri, enigmi irrisolti e intrecci filosofici da chiamare in causa persino i luminari del soprannaturale. Sì, soprannaturale sembra essere l’aggettivo che meglio riesce a rappresentare il più grande cineasta mai vissuto su questa Terra. E tornando a Shining, ecco cosa abbiamo scoperto di nuovo.
Shining: un racconto di relazione genitoriale e dipendenza da alcol
Stephen King diede alle stampe il romanzo nel 1977 presentandolo come il racconto di una particolare relazione fra genitori e figli, concatenata all’esplorazione della dipendenza da alcol di cui soffre il protagonista Jack Torrance a scapito della moglie Wendy e di suo figlio, il piccolo Danny.
Ebbene, nel libro il nuovo custode dell’Overlook Hotel intesse fantasiose conversazioni con un barman materializzatosi dietro al bancone della Sala da ballo, l’imperturbabile Lloyd, proiezione della mente frustrata di Jack, ex alcolista sedotto da un rinnovato desiderio di bere.
Dal Martini al Jack Daniel’s: perché?
Restando ancorati a quanto ci dice il romanzo, nell’arco del lungo dialogo egli consuma ben venti bicchieri di Vermouth, precisamente Martini. La resa scenica a livello cinematografico mantiene le medesime suggestioni, ma Kubrick apporta una differenza, introducendo invece nell’inquadratura una bottiglia di Jack Daniel’s, lo storico Tennessee Whiskey che, tuttavia, viene erroneamente ritenuto un bourbon nel doppiaggio italiano.
Stephen King, per la cronaca, ha odiato e odia tuttora il film di Kubrick per le numerose reimpostazioni narrative e varianti che, nel computo generale, hanno contribuito a riplasmare alcune sequenze nonché il finale. Il motivo è semplice: il titanico Stanley ha inteso disseminare messaggi, chiavi di lettura, raccordi metaforici tra i fotogrammi in movimento della pellicola, facendone una sorta di vaso di Pandora conteso da complottisti del falso allunaggio e NASA.
Nel caso della scelta del distillato, la spiegazione è da ricercare nel nome del prodotto sorseggiato da Jack. Ci troviamo di fronte a un’omonimia e non si tratta di coincidenza (parola totalmente estranea a Kubrick): Jack come Jack Daniel’s.
Ma stupisce ancor di più quel Daniel, secondo nome di Jack Torrance – all’anagrafe John Daniel Edward Torrance, detto “Jack” – il cui diminutivo è Danny, suo figlio. Come se non bastasse, viene citata indirettamente anche Wendy Torrance, le cui iniziali invertite, cioè TW, sono le stesse di Tennessee Whiskey.
Insomma, la teoria della famiglia minacciata dall’alcol – di cui abusa uno dei suoi membri – starebbe tutta nella lettura dell’etichetta sulla bottiglia, che vede i nomi del padre e del figlio uniti insieme a creare una forte connessione fra i due (entrambi possiedono il dono della “luccicanza” ma Jack non ne è consapevole), lasciando a margine la moglie-madre Wendy, unica vera figura salvifica (priva del potere dello shining) in quell’orrore prodotto dalla follia soprannaturale.
Ah, un’ultima cosa: a interpretare Jack Torrance è l’immenso Jack Nicholson. Proprio così, un altro Jack! Il piccolo attore nel ruolo di Danny è… Danny Lloyd, il cui cognome (altra coincidenza?) lo associa al misterioso barman. L’unica a non avere alcuna attinenza “nomenclare” è Shelley Duvall nei panni di Wendy. Riflettete, gente!