Pensare che Cape Fear fece approdare il grande Martin Scorsese nel circolo dei cineasti che “fanno cassetta” (il film fece parte di un progetto con la Universal, in cambio del quale venne finanziata la pellicola L’ultima tentazione di Cristo) fa sorridere. Non tanto per denigrare coloro che, come Scorsese, percorsero la strada del “tu fai una cosa per me e io ne faccio una per te”, quanto per il risultato che ai posteri ebbe la pellicola in questione (79 milioni di dollari di incasso).
Il primo remake di Scorsese
Il regista, accettando di rivisitare il cult in bianco e nero Il promontorio della paura – thriller piuttosto violento diretto nel 1962 da Jack Lee Thompson – non solo riuscì a marcare ancora una volta l’impronta che in passato lo aveva consacrato, ma creò una sorta di icona, un antieroe violento e vendicativo, un volto che tutt’oggi troviamo stampato sulle magliette.
E se quel volto, quello di Max Cady, dalla smorfia feroce e immorale, è anche quello di un Robert De Niro in stato di grazia, tanto meglio. Il film, tratto dal romanzo The Executioners di John D. MacDonald (1958), è inoltre il primo remake di Scorsese.
Max Cady e il fuoco della vendetta
Dopo quattordici anni di prigionia, Max Cady – accusato di stupro – esce di prigione con il solo intento di perseguitare il suo avvocato difensore (Nick Nolte), allora incapace di vincere la causa. Cambiato radicalmente (“quando lo difesi era un analfabeta“), nutrito dal fuoco della vendetta, Max Cady ha passato la sua prigionia a studiare legge e scopre quanto l’avvocato Sam Bowden sia stato negligente.
Il suo corpo nerboruto è coperto da emblematici quanto indimenticabili tatuaggi come la bilancia sulla schiena, dove l’equilibrio è sancito dalla verità e dalla giustizia, e il cuore spezzato sul petto con su scritto “Loretta“. Non ha intenzione di rifarsi una vita ma di distruggere quella della famiglia Bowden e come un camaleonte diviene ciò che vuole e quando vuole. Macchina fiammante, sigaro cubano, coppola bianca e camicia hawaiana, Max Cady scende in pista.
La sua prima vittima è Lori, collega e amante dell’avvocato, sedotta, deturpata in volto e picchiata (l’immagine più famosa è quella in cui Cady sovrasta la donna stringendole le mani dietro la schiena). Bowden, sentendosi in pericolo, contatta il tenente Elgart (interpretato da Robert Mitchum, protagonista della pellicola di Thompson nel 1962), ma Cady è inattaccabile, conosce troppo bene la legge per violarla; l’unico modo per allontanarlo sembrerebbe quello di spaventarlo.
Gli aguzzini assoldati da Bowden proveranno sulla loro pelle il sentimento rancoroso dell’ex detenuto e favolosa è la sequenza in cui Cady, sanguinante, brandendo una spranga e accortosi della presenza di Bowden lo invita a farsi vedere:
“Avvocato… avvocato… non giocare a nasconderti, tira fuori la testolina da lì, avvocato… ci sei o non ci sei? Vaff… anche se ci sei che me ne frega“.
Distruggere la famiglia Bowden
Il misero tentativo dell’avvocato scatena ancora di più la vendetta di Cady, capace di adescare l’ingenua Danielle (Juliette Lewis), la figlia di Bowden, spacciandosi per il suo nuovo insegnante di recitazione: Max conquista la fiducia della ragazza con citazioni letterarie e frasi penetranti come “Non puoi sfuggire ai tuoi demoni solo scappando di casa” . Ora l’avvocato ha davvero paura.
Sebbene il nostro antieroe non riuscirà nell’intento pur mietendo altre vittime (dalla governante all’investigatore privato) e la famiglia Bowden si salverà in toto, il suo tentativo ha lasciato un segno indelebile nel panorama cinematografico del genere. Scorsese e De Niro sono riusciti a farci simpatizzare per “il cattivo” e in molti avrebbero voluto veder portare a termine la vendetta di Max Cady. Sempre in molti avrebbero voluto veder spuntare ancora una volta la sua testa bruciacchiata dalle acque nella scena finale per infliggere al bieco avvocato la sua giusta punizione.
Nominato all’Oscar nel 1992 come miglior attore protagonista, De Niro fu eccezionale e il suo Max Cady semplicemente inimitabile.