Nel 1961 Richard Fleischer affrontò la trasposizione cinematografica del romanzo Barabba di Pär Lagerqvist dando di fatto vita a un kolossal biografico sulla paradossale figura del rozzo criminale graziato dal popolo nel giorno della Pasqua ebraica, risparmiato dalla terribile punizione della crocifissione cui fu invece destinato Gesù. Ad oggi, Barabba rimane uno dei più limpidi esempi di cruciale armonia fra fotografia e scenografia, aspetti tecnici esaltati da una colonna sonora sperimentale dagli acuti possenti, incredibili.
Troupe di primo livello e un cast internazionale
Il lungimirante produttore di allora, Dino De Laurentiis, non badò a spese per aggiudicarsi una troupe di primissimo livello, dal regista Fleischer al compositore Mario Nascimbene, selezionando accuratamente il direttore della fotografia Aldo Tonti e l’art director Mario Chiari.
Questi nomi fecero grande il lungometraggio offrendo inaudito risalto all’interpretazione di un cast internazionale presieduto da Anthony Quinn, Silvana Mangano, Vittorio Gassman e Jack Palance, oltre a illustri camei non accreditati e ben celati come quelli di Paola Pitagora (Maria Maddalena) e Sharon Tate (giovane patrizia sugli spalti dell’arena).
Dolore, peccato e morte nella partitura musicale di Mario Nascimbene
Il film è un susseguirsi di sequenze dall’impatto visivo estremamente potente, cui fa da formidabile collante e amplificatore la partitura musicale di Nascimbene, contraddistinta da cori d’aura funerea, accompagnamenti di violino e lancinanti rintocchi di campane. Il dolore, il peccato e la morte fanno da permanente tessuto a un ipotetico biopic (non esistono purtroppo testimonianze scritte né racconti biblici inerenti il famigerato malfattore) immerso nella parabola del Cristo condannato, giustiziato, sepolto e poi risorto.
Una storia fruita dal punto di vista di Barabba, il peccatore per antonomasia, il bandito spregevole e l’assassino ma anche un uomo tormentato, combattuto tra la propria volontà di credere e l’innata diffidenza dell’essere umano troppo legato alla materialità.
Lo straordinario peso specifico della fotografia e della scenografia
Il valore dei costrutti fotoscenografici di Aldo Tonti e Mario Chiari ha uno straordinario peso specifico soprattutto nella prima parte della pellicola, dove quella che doveva essere all’epoca un’esecuzione come tante viene messa in scena in connessione con un’atmosfera estremamente irreale, mistica e spaventosa. Ancora oggi nessun film, per quanto curato e addentrato nel motivo monografico cristiano, è riuscito a replicare l’angoscia, l’inquietudine e il terrore dispensati dal Barabba di Fleischer.
La cecità del pensiero e della ragione
La gestione della luce è essenziale poiché detta i livelli di cecità del protagonista, una cecità non fisica ma correlata al pensiero e alla ragione offuscati da egoismo, menefreghismo e disprezzo maturati in una vita di violente dissoluzioni. La prima persona che egli vede non appena liberato è proprio Gesù e quella visione inizialmente lo abbaglia fin quasi a bucargli i bulbi oculari, evidenziando così un’estemporanea idiosincrasia con il contesto al quale Barabba risulta estraneo per quanto inconsapevolmente complice.
Un bagliore simbolico, ovviamente, in cui l’icona sacra permane stoica quanto sofferente, immobile, rassegnata e isolata come nel famoso dipinto Ecce Homo di Francesco Hayez (olio su tela, 128×210 cm, 1867-1875 ca.).
La crocifissione durante l’eclisse solare
Tonti si supera nella tragica scena della crocifissione, girata a Roccastrada (provincia di Grosseto) durante l’eclisse solare del 15 febbraio 1961. L’oscurità in pieno giorno, senza l’effetto speciale: assistiamo all’annichilimento degli sguardi, c’è timore e smarrimento nella voce rotta di Sara, si spande un plumbeo silenzio.
Barabba, in un primo momento convinto di aver perduto la vista, si dirige verso il Golgota mentre la gente fugge in preda al panico. La musica di Nascimbene raggiunge l’apoteosi mentre il sole torna a splendere nel suo liturgico, miracoloso balletto con la luna piena, un duetto che in un solo istante sembra definire l’occhio onniveggente di Dio.
L’incubo claustrofobico nelle miniere di zolfo
Fotografia e scenografia entrano in completa simbiosi all’interno delle miniere di zolfo, laddove la strumentalizzazione tecnica dei lumen in rapporto agli stretti cunicoli sotterranei crea qualcosa di eccellente, un incubo claustrofobico di dannata coercizione che si fonde con la disillusione degli schiavi ridotti a zombi in attesa di morire.
Già, ancora la morte sale sul palcoscenico percorrendo la stessa strada di Barabba, di nuovo alle prese con la tutela della vista, un senso che sembra stargli a cuore più di tutto. Lui vuole vedere nonostante il tempo scorra trascinandolo sempre più giù nelle viscere apogee della miniera, l’inferno di Dante che tutto inghiotte portandosi via anime e speranze. Eppure un terremoto diventa salvifico – ossimorico ma vero – e tornando in superficie la luce si ripresenta veemente, dirompe mettendo fine alla continuità di buio con cui Barabba ha convissuto per 20 anni.
Dalle catacombe alle fiamme di Roma
Un salto ci catapulta all’agognato finale. Dopo aver consegnato il corpo dell’amico Sahak alla comunità cristiana, il protagonista si smarrisce nelle catacombe. La vita di Barabba pare non poter prescindere dalla perdizione, un’amara condizione che sublima quand’egli, ritrovata l’uscita, scopre Roma in fiamme contribuendo alla sua distruzione.
La battaglia fra luce e tenebra si conclude a favore della seconda. Barabba muore solo sulla croce, in una notte anonima. L’unica voce che rompe il silenzio è la sua. Pronuncia il suo nome esalando l’ultimo respiro, il tono musicale lascia così calare il sipario.